martedì 30 dicembre 2008

Un giorno all'ospedale

Durante l'estate del 2008 Mario è stato a Rimini, non per trascorrere alcuni giorni sulla spiaggia, ma per essere vicino ad una sua carissima persona, che era ricoverata in ospedale. In una sua visita, accompagna la degente presso il reparto di Dialisi, per rispetto della privacy degli altri pazienti, pur potendo entrare, decide di attendere in corridoio. Si siede su una panca e osserva quanto avviene all'ingresso del reparto. Entrano in reparto persone apparentemente sane, altre vengono accompagnate su sedie a rotelle, altri su barelle; sono uomini e donne di varie età e in condizioni di salute diverse. Un pensiero si impone all'attenzione di Mario: se queste persone non fossero sottoposte a queste terapie sarebbero certamente morte.
Quante occasioni di morte ci sono, molte sono procurate dagli uomini stessi, per incuria, per disattenzione, molte vengono dalla natura stessa, spesso si dice la morte cerca l'occasione.
Ma gli uomini, fortemente legati alla difesa della vita, hanno cercato e continuano a cercare tutti gli strumenti per star bene, per curarsi. La speranza di vivere bene e al più a lungo possibile , fatta eccezione di alcuni casi disperati, è connaturata negli uomini. Osservando i pazienti che si avvicendavano nel reparto di Dialisi, Mario pensava: peccato questa giovane ragazza! Questa mamma e questo padre combattono per la loro vita anche per sostenere la propria famiglia, i propri figli! Questo vecchietto, gravato dai suoi anni e dai vari acciacchi delle età tiene saldi i suoi affetti famigliari. Che tristezza vedere un signore, disteso sulla barella, pallido ed emaciato che stava sostenendo ancora la lotta per la sopravvivenza, sostenuto dalla speranza di una probabile guarigione.
Il pensiero rincorre situazioni ancora più gravi, ricorda alcune impressioni accumulatesi durante la visita di una casa protetta, ricorda alcuni casi evidenziati dai giornali riguardanti delle persone che da anni sono legati a macchine per sopravvivere, alcuni in stato di coma per anni.
La speranza di vita sorregge tanti sofferenti e i loro famigliari che non vogliono staccarsi dai loro cari. E se la speranza viene meno? Se la scienza non offre alcun supporto alla speranza? A chi spetta la responsabilità di decidere la sospensione delle cure? Perché ostinarsi testardamente a sostenere l'impossibile?

Il sapere ci pone difronte a tali responsabilità, che in altre epoche si sarebbero risolte naturalmente.

Gli uomini curano la propria salute con tutti i mezzi possibili; grazie alla scienza medica e alle capacità dell'industria, che offre mezzi sempre più sofisticati per sostenere la vita, gli uomini d'oggi hanno la possibilità di vita superiore a quella degli anni precedenti, ma possono tenere in vita per lungo tempo delle persone in coma. È giusto accanirsi su delle persone inermi?
Tutti gli esseri che nascono sono destinati alla morte.

lunedì 1 dicembre 2008

Intorno al braciere

Nelle lunghe e uggiose serate d’inverno, si stava intorno al braciere.
In attesa del rientro del papà, la mamma intratteneva i propri figliuoli raccontando racconti e fiabe che aveva ascoltato o letto, cercando di renderle più accattivanti declamandole o intercalando sue riflessioni. Erano favole di Esopo o di Fedro, di Perault episodi tratti dal libro Cuore di De Amicis, o brani di vari autori tratti dai testi di lettura dei propri figli. Quasi tutti si chiudevano con una “morale” e con una esortazione ai propri figli.
Quando veniva meno l’attenzione dei figli o la stanchezza aveva il sopravvento, si proponeva delle cantilene o piccoli giochi, che potevano essere svolti nella stanza.

Riporto alcuni racconti come li ricordo, mi perdonino gli autori, se non li menziono; non sono documentato, se qualcuno volesse segnalarmeli, li citerei ben volentieri.

L’unione fa la forzaUn padre aveva sette figli e sentendo la morte vicina volle offrire un ultimo insegnamento di unità e solidarietà ai propri figli, perciò chiamò i figli e presentò loro un fascio di sette verghe e invitò loro a spezzarlo. Tutti e sette i figli, cominciando dal più grande, con grande impegno e con spreco di forza ci provarono ma inutilmente, nessuno riuscì a spezzare le sette verghe unite. Allora il padre prese le verghe e le spezzò una ad una, , con grande facilità, invitando i figli ad essere uniti per essere forti nelle difficoltà della vita.

Rispetto degli anziani
Un padre, ormai debole e bisognoso di aiuto, divise i propri averi ai figli in cambio dell’assistenza per il tempo che Dio ancora gli avrebbe concesso (all’epoca non c’era la pensione né altri sostegni sociali), i figli promisero tutta la loro solidarietà, ma dopo qualche tempo presi dalle loro preoccupazioni dimenticarono il vecchio e povero padre. Questi si rivolse al convento per un po’ di aiuto e l’ottenne, inoltre un frate gli suggerì uno stratagemma. Il vecchio ringraziò o tornò alla propria dimora. Ogni giorno prendeva delle monetine le contava facendole cadere in una ciotola di ferro con grande rumore, poi le riversava e riprendeva a contare. A lungo andare i vicini di casa attratti da questo rumore, riferirono ai figli di tante monete che il padre continuava a contare. Questi presi dalla cupidigia di partecipare alla divisione di questa sconosciuta ricchezza del padre, ripresero a frequentare e ad aiutare il padre. Quando questi morì frugarono tutta la casa, in un angolo trovarono un vaso da notte ben sigillato con del cemento, pensarono che in quel vaso fosse il tesoro. Lo presero e il più grande se lo caricò in spalla per portarlo in campagna per aprirlo in un luogo sicuro, strada facendo il più giovane, rodendosi dalla curiosità prese una pietra e la scagliò contro il vaso e meraviglia! Il vaso rompendosi sparse tanti olezzanti escrementi.
Il racconto ha una morale evidente, ma quando era presente il papà, questi concludeva: “un padre riesce a campare cento figli, ma cento figli non riescono a campare un padre!”

Il lavoro come ricchezzaUn padre, molto povero, aveva tre figli. Ormai vecchio e sentendosi vicino alla morte chiamò vicino a sé i figli e disse loro. Non ho tanto da darvi, ma nel mio piccolo campo c’è un tesoro, ecco lo consegno a voi. Dopo poco tempo il vecchietto morì. I figli si caricarono di zappe e picconi e scavarono in ogni parte del piccolo campo, ma non trovarono il tanto agognato tesoro. Risistemarono il terreno e giacché lo avevano profondamente coltivato pensarono di seminare il grano. Il grano si affermò e si sviluppò. A giugno i tre fratelli andarono al campo e videro una distesa di biondo grano e capirono l’insegnamento del padre: il vero tesoro che il padre aveva loro consegnato era il frutto del loro lavoro.

domenica 30 novembre 2008

Il mastro carraio

La maggior parte del tempo il piccolo Mario la trascorreva in casa, dove la mamma lo impegnava con piccoli giocattoli.
Durante alcune ore, nelle stagioni più calde, gli era consentito di soffermarsi sull’ampio pianerottolo antistante la propria dimora, dove giocava con altri bimbi assistiti da qualche mamma più libera.
Alcune volte, attraversava un lungo corridoio e raggiungeva una veranda da cui poteva osservare l’attività artigianale del mastro carraio.
Questi disponeva di ampi spazi, dove depositava i tronchi di pino, di quercia o di altro genere per farli adeguatamente stagionare prima di lavorarli. In mezzo a questi cumuli di tronchi c’erano degli animali da cortile: polli, tacchini… ma la maggiore attrazione la offrivano i pavoni soprattutto quando distendevano le loro piume colorate.
Si sentiva un continuo stridere delle seghe, il picchiare delle asce sui legni, e quando i vari pezzi delle ruote erano assemblati, in collaborazione con il fabbro, si disponevano delle fascine a forma circolare, e su queste si poneva un pesante cerchione di ferro e si appiccava il fuoco.
Una grande fiammata si alzava e il cerchione si arroventava, quindi con maestria veniva sollevato e messo intorno alle altre parti della ruota già assemblate. Il cerchione di ferro raffreddandosi si restringeva e la ruota era pronta per essere montata al carro.
Gli artigiani avevano compiuto una bella opera, Mario aveva assistito ad uno spettacolo. Si ricordò di questa operazione nel laboratorio del Liceo, quando il professore di fisica spiegò la dilatazione dei corpi.

domenica 23 novembre 2008

LA DIGNITÀ DI ATENE

(TUCIDIDE, Guerra del Peloponneso, II, 36, 41)
«E comincerò dagli antenati: è giusto, e in pieno accordo con la circostanza presente, che si tributi ad essi l'onore del ricordo. Questo paese fu l'immutata dimora, nella vicenda di generazioni infinite, dello stesso popolo, il cui coraggio l'ha trasmesso a noi libero. [...]
Il nostro ordine politico non si modella sulle costituzioni straniere. Siamo noi d'esempio ad altri, piuttosto che imitatori. E il nome che gli conviene è democrazia, governo nel pugno non di pochi, ma della cerchia più ampia di cittadini: vige anzi per tutti, da una parte, di fronte alle leggi, l'assoluta equità di diritti nelle vicende dell'esistenza privata; ma dall'altra si costituisce una scala di valori fondata sulla stima che ciascuno sa suscitarsi intorno, per cui, eccellendo in un determinato campo, può conseguire un incarico pubblico, in virtù delle sue capacità. [...]
La tollerante urbanità che ispira i contatti tra persona e persona diviene, nella sfera della vita pubblica, condotta di rigorosa aderenza alle norme civili, dettata da un profondo, devoto rispetto: seguiamo le autorità di volta in volta al governo, ma principalmente le leggi e più tra esse quante tutelano le vittime dell'ingiustizia e quelle che, sebbene non scritte, sanciscono per chi le oltraggia un'indiscutibile condanna: il disonore. [...]
Ecco le differenze tra i nostri metodi di preparazione alla guerra e gli avversari. La città accoglie tutti, senza provvedimenti d'espulsione per segregare i forestieri da qualche nostro segreto, morale o materiale, che diffuso e caduto sotto gli occhi di un eventuale nemico Io potrebbe gratificare d'un vantaggio. La nostra fiducia rampolla dall'ardimento che sappiamo esprimere nell'azione, più che nella forza di perfetti e astuti preparativi. Nel campo educativo, i nostri avversari si studiano con pesanti esercizi, fin dalla prima età, di conseguire il coraggio; mentre da noi la vita sciolta e indipendente ci permette non meno di affrontare ad armi pari qualunque lotta.
Amiamo la bellezza, ma con limpido equilibrio: coltiviamo il pensiero, ma senza languori. Investiamo l'oro in imprese attive, senza futili vanti. Non è vergogna, da noi, rivelare la propria povertà: piuttosto non saperla vincere, operando. In ogni cittadino non si distingue la cura degli affari politici da quella dei domestici e privati problemi, ed è viva in tutti la capacità di adempiere egregiamente agli incarichi pubblici, qualunque sia per natura la consueta mansione. Poiché unici al mondo non valutiamo tranquillo un individuo in quanto si astiene da quelle attività, ma superfluo. Siamo noi stessi a prendere direttamente le decisioni o almeno a ragionare come si conviene sulle circostanze politiche: non riteniamo nocivo il discutere all'agire, ma il non rendere alla luce, attraverso il dibattito, tutti i particolari possibili di un'operazione, prima di intraprenderla. [...]
Dirò, in breve, che la città nostra è, nel suo complesso, una viva scuola per la Grecia. Non solo, ma in particolare mi sembra che ogni cittadino, educato alla nostra scuola, acquisti una personalità completa, agile all'esercizio degli impegni più diversi, con elegante disinvoltura. Non è questo puro splendore di parole, degno dell'occasione attuale, ma effettiva realtà. Lo mostra la potenza della nostra città, acquisto di tali metodi di vita. Unica infatti, nel nostro secolo, risulta nella prova superiore alla sua fama e sola non offre al nemico che l'assale motivo d'amaro sdegno per la bassa natura di quelli da cui è vinto e afflitto, e di disgusto ai sudditi, come se servissero una gente indegna. Non solo i contemporanei, ma più i posteri ci ammireranno, come autori di una potenza che ha lasciato profonde tracce nel mondo e ricche testimonianze».
(Tratto da C.Ciancio – G.Ferretti – A.Pastore – U. Perone, FILOSOFIA: I TESTI, LA STORIA, vol.I, SEI, To)

domenica 26 ottobre 2008

La bottega dello stagnino

Mario incominciava ad esplorare il mondo circostante, conosceva le persone amiche, le attività che esse svolgevano, ogni tanto riusciva a toccare gli arnesi degli artigiani e a chiederne le loro funzioni, ma il luogo che maggiormente frequentava era la bottega dello zio stagnino. Questi abitava con il nonno e aveva la sua bottega a pochi passi dalla casa, e spesso capitava che la mamma andava dal nonno e permetteva al piccolo Mario di sostare dallo zio, che con tanta gentilezza e comprensione si prestava a custodire il nipotino. Qui Mario rovistava ogni cosa e osservava il lavoro dello zio. Questi forgiava e assemblava vari utensili domestici e da lavoro, ora non più in uso, con lamine di ferro e stagno (latta): contenitori dell'olio, secchi, pompe, varie protezioni per le dita dei falciatori, secchielli, brocche, tegami, bacinelle varie ecc. Ma ciò che destava maggiore curiosità in Mario era la costruzione dell'imbuto: lo zio prendeva il “foglio di stagno”, lo disegnava secondo le richieste dei clienti, quindi tagliava due pezzi, uno più piccolo per la parte sottostante l'imbuto l'altro più grande dove dovevano essere versati i liquidi, li forgiava poi li saldava singolarmente, quindi li assemblava saldandoli insieme, ogni volta poneva un acido quindi con una mano prendeva lo stagno con l'altra un ferro rovente che accostava allo stagno che sciogliendosi andava ad unire le varie parti della lamiere attentamente tenute vicine. Quindi sagomava i bordi e aggiungeva una fascetta sempre di latta per poter reggere o appendere l'imbuto. Non ricordo quanto tempo impegnasse, forse tra 15 o 30 minuti, quando non era interrotto dal suo lavoro da altri avventori o da altre faccende. Ciò avveniva negli anni '50-'60, quando erano diffusi nel paese tanti artigiani che svolgevano varie attività, un po' la volta scomparsi o trasformati in aziende più grandi e specializzate.
Negli anni '80 quando Mario ebbe l'opportunità di vedere la fiera delle macchine utensili di Milano e vide una macchina che senza operai trasformava, circa ogni 5 secondi, un blocchetto di alluminio in imbuto pronto per l'uso, si rese effettivamente conto delle profonde trasformazioni nel mondo della produzione e dell'impossibilità della sopravvivenza delle botteghe artigiane e dei tanti drammi subiti da tante bravissime persone in seguito a tali trasformazioni. Gli apparvero con lucidità il senso delle lotte che questi sin dalla fine del '700 in Inghilterra avevano condotto contro le macchine.
La macchina di imbuti vista a Milano avrebbe fornito in un solo giorno di imbuti tutti i paesani di mio zio, e forse molti, avendone in abbondanza lo avrebbe usato come cappello come l'uomo di latta della favola del Mago di Oz.
Ma anche questa macchina gli sembrò già superata, perché nella vita domestica, ai nostri giorni, si usano sempre di meno i prodotti in metallo, mentre, soprattutto per i liquidi, predominano gli utensili in plastica.
In questi pochi anni della sua vita Mario ha visto grandi cambiamenti che hanno travolto le abitudini, l'organizzazione del lavoro e la società intera.

martedì 21 ottobre 2008

Il federalismo

Il federalismo indica un accordo tra varie entità politiche (piccoli stati) per conseguire una finalità che superi interessi particolari. Di solito il federalismo è sostenuto da movimenti o partiti di democrazia radicali, e sostenitori di una reale democrazia, con una rappresentanza la più diretta possibile. Solo per ricordare alcuni eventi storici in cui più profondamente fu dibattuto il tema del federalismo nell'età moderna: durante l'affermazione del calvinismo in Svizzera e Provincie Unite, la democrazia diretta di Rousseau in Francia, il dibattito sul federalismo durante la rivoluzione delle colonie inglesi d'America, le scelte politiche della Comune parigina del 1870 a Parigi....
Sono questi i momenti cruciali della storia in cui i democratici hanno sostenuto la necessità della partecipazione alla vita politica del proprio paese. La convinzione di fondo è l'uguaglianza degli uomini e la capacità di tutti di partecipare alla vita politica, unita alla necessità di superare gli egoismi per addivenire al conseguimento di finalità comuni per il benessere di tutti. Tali convinzioni erano sostenute dalla lotta contro l'assolutismo monarchico o delle varie oligarchie predominanti nei vari stati europei e non.
Anche quando fu unificata l'Italia si discusse di federalismo e centralismo, ma la classe politica dell'epoca decise il centralismo creando non pochi problemi all'equilibrio negli stati preesistenti. Sarebbe stato più realistico, come sta avvenendo oggi in Europa quando devono essere ammessi altri stati, prima far conseguire un certo equilibrio fra gli stati e poi integrarli, ma la logica dei politici dell'epoca fu altra con conseguenze nefaste per l'equilibrio interno.
L'Assemblea che ha prodotto la Costituzione Italiana, composta prevalentemente da partiti democratici, erano ben consapevoli di un organizzazione statale che coinvolgesse il popolo nelle scelte politiche del Paese e nella sua amministrazione, pertanto aveva proposto un'organizzazione regionale. Tuttavia solo nel 1970 furono istituite le Regioni a statuto ordinario, con scarse deleghe politico-amministrative, per cui ancora oggi abbiamo un governo centrale che lascia pochi spazi agli organi periferici: delega alcune funzione e poi per motivi “misteriosi” ritira le deleghe, come è avvenuto poco tempo fa per l'I.C.I. ai Comuni.
Pur condividendo in linea di principio il federalismo, ho delle perplessità per come sta avvenendo e da chi viene proposto. Non so quale federalismo possa essere sostenuto da A.N., che ha sempre sostenuto un forte potere centrale e continua a proporre il presidenzialismo come forma di governo, o dalla Lega Nord, che, da quando si legge dai suoi programmi e dai suoi manifesti, vuole il federalismo, non per un programma di cooperazione e di maggiore forza per l'Italia, ma per difendere presunti interessi del Nord (per il momento non voglio inoltrarmi nell'analisi di questi interessi), sostenendo la convinzione che la maggior parte delle tasse pagate dai lombardi vada disperse per sovvenzioni al Sud, o per lo sperpero che fa il governo centrale.
Spesso da forze contrastanti o avverse possono derivare anche esiti positivi; auguro alle giovani generazioni dell'Italia che dal dibattito parlamentare possa emergere un equilibrato federalismo che esalti la democrazia italiana, visto che a livello nazionale tentano di limitare la partecipazione al voto, delegando ai partiti di nominare i rappresentanti nel Parlamento Italiano, e da quello che si legge sui giornali anche al Parlamento Europeo, togliendo al popolo quel residuo di democrazia che è la scelta dei propri rappresentanti tramite la manifestazione della preferenza tra i vari candidati nelle liste di partito.
Sarà questa la democrazia che sostengono i novelli federalisti italiani?

martedì 30 settembre 2008

Un sogno infranto

Luigi sin da ragazzo nutriva un grande sogno, voleva mettere su una bottega di sartoria artigianale. Dopo gli studi incominciò a frequentare le sartorie locali, non soddisfatto emigrò in Francia per incrementare le sue conoscenze e le abilità nell'arte sartoriale. Ritornò a Ruvo di Puglia, investendo i propri risparmi, avviò la sua bottega in un luogo centrale del paese e facilmente accessibile. Cercò di pubblicizzare la sua attività partecipando a delle sfilate di moda regionale con notevoli affermazioni, incominciarono ad affluire vari utenti, ma la produzione sartoriale della sua giovinezza era profondamente mutata.
Ancora negli anni '60 nella cittadina erano presenti varie sartorie dove intorno al maestro, che tagliava, su misura del cliente, la stoffa per confezionare l'abito, c'erano vari giovani (soprattutto uomini nelle sartorie da uomo, prevalentemente donne per le sartorie da donna), che impegnavano l'intera giornata a cucire a mano gli abiti. Di solito, dopo la prima misura, il cliente doveva ripassare per la prova, quindi, se non insorgevano altri problemi, l'abito era pronto in meno di una settimana; spesso, per l'accumulo di lavoro nelle sartorie, bisognava attendere più tempo.
Mio padre, nato nel 1904 e morto nel 1988, solo negli ultimi anni della sua vita, ha indossato degli abiti confezionati, peraltro acquistati dai figli; lui non si sentiva a suo agio con tessuti diversi da quelli che era solito vestire, né desiderava cambiare stile.
Noi, figli, ormai vestivamo abiti di confezione industriale, ma mamma per i vestiti di occasione come prima comunione, partecipazione a feste di matrimonio, preferiva farci vestire con abiti di confezione sartoriale. Gli ultimi miei vestiti confezionati da una sartoria artigianale furono quelli del mio matrimonio, elaborati dal mio amico Luigi.
Intorno agli anni settanta i sarti non riuscivano più a sostenere la concorrenza dell'industria, alcuni chiusero la loro attività, cercando lavoro nelle industrie di confezioni che si aprirono anche a Ruvo, altri si unirono in cooperativa, altri ancora mantennero l'attività ma la affiancarono da un'attività commerciale di abbigliamento, in tal modo offrivano ai clienti la possibilità di scegliere tra confezione artigianale o industriale, e comunque rifinivano o adattavano ai clienti gli abiti che venivano dall'industria.
Il sarto Luigi, non volle rinunciare; mal si adattava all'ambiente dell'industria, perciò prese contatto con i grandi distributori di tessuti per cercare di offrire ai suoi clienti i tessuti migliori a prezzi competitivi, offrì la suo opera per rifinire nella sua bottega i prodotti di qualità dell'industria. Tutto risultò inutile, la concorrenza dei prodotti industriali e il ristretto mercato che ormai offriva il proprio paese incrinarono i suoi sogni e fu costretto a cessare la sua attività.

domenica 28 settembre 2008

Il Mito

La parola Mito deriva dal greco μΰθος che significa racconto. È un racconto, frutto di una grande fantasia, elaborato da vati, che cercavano a loro modo di spiegare il meraviglioso mondo a loro circostante.
Il loro modo di rapportarsi alla vita era molto diverso dal nostro. Gli antichi, che non erano dominati da un atteggiamento scientifico, e condividevano quotidianamente la propria vita con il mondo naturale circostante, apprezzavano questo mondo e lo consideravano simile alla loro vita: questo mondo era a loro familiare, condivideva la stessa vita, e aveva uno spirito simile al proprio. Inoltre i grandi fenomeni naturali, l'ordine delle stagioni, il cielo e il movimento degli astri, secondo il loro punto di vista, non potevano essere lì in modo casuale, ma erano regolati da forze intelligenti che chiamavano divinità, demoni, ninfe e satiri...
Oggi con l'esplorazione del mondo con metodo scientifico rendiamo ogni evento, o essere vivente, un oggetto dominato dal principio di causa ed effetto e pertanto lo riduciamo ad un mirabile, ma freddo meccanismo. Anche se, ancora oggi, chi vive a contatto per lungo tempo con la natura e persino con macchine, prova un certo legame quasi affettivo con queste, e spesso usa un linguaggio metaforico di apprezzamento nei loro confronti come se fossero delle persone.
Il mito, per gli antichi, era il mezzo di comunicazione consono alla loro esperienza di vita, e alla trasmissione della loro sapienza.
Gli antichi poeti, i vati, dicevano di essere ispirati dalle muse o da altre divinità, spiegando in tal modo ciò che noi chiamiamo estro poetico, ispirazione poetica.
I miti raccontano l'origine degli dei, le teogonie; con tali racconti i saggi antichi tentavano di mettere ordine alla vita. Stabilendo quale divinità fosse nata prima o dopo, cercavano di spiegare l'origine dell'universo; con la loro fervida fantasia creavano la primitiva cosmologia.
I miti sostenevano anche la vita umana, esortando al rispetto dell'ordine e delle leggi.. Infatti le leggi della natura erano state date da Zeus e guai a trasgredirle, coloro che non le rispettavano sarebbero stati inesorabilmente puniti.

Anche i primi filosofi si rifacevano ai miti, ma va sottolineato l'uso particolare del mito in Platone. Questi, che ha posto con forza la necessità dell'uomo di ricercare la verità in modo da poter progettare una vita politica giusta ed efficace, ha dovuto, come tutti gli uomini, fare i conti con la limitatezza delle capacità umane. Pertanto ha cercato nei suoi dialoghi di dimostrare le sue tesi, ma non potendole giustificare totalmente, spesso ha fatto ricorso ai miti, che, in questo caso, sono dimostrazioni approssimate fondate su credenze piuttosto che su dimostrazioni razionali. Anche se le sue considerazioni possono essere più o meno condivisibile, sono comunque da accettare per fede, per convenienza, non per fondato sapere.

In sintesi, il mito per gli antichi è una narrazione, che vuole spiegare l'origine del mondo, i fenomeni naturali e dare regole al comportamento umano individuale e collettivo. Nasce dall'esigenza di conoscere sé stessi e il mondo, ma per i limiti dei loro mezzi di conoscenza immaginano forze divine, non molto difformi dagli uomini. Importante è sottolineare che questi risultati acquisiti vengono dati come conclusivi, certi, perché suggeriti ai vati dalle divinità, quindi bisogna accettarli definitivamente.

Nella storia possiamo ritrovare infiniti miti, che, pur sotto forme diverse, rappresentano situazioni simili. Si comincia con la ricerca individuale o collettiva, quindi si consegue una una meta convincente che spesso viene ritenuta come l'unica possibile conclusione della stessa. Oppure si conoscono degli individui bravi nel loro ambiente, che vengono apprezzati e esaltati come modelli, in cui si ripone la propria speranza e la propria fiducia. Questi eventi o queste persone spesso diventano miti. Si è disposti a difenderli a qualsiasi costo, anche ad offrire la propria vita.
Non starò qui a richiamare gli infiniti miti affermatisi nella storia, è una fatica impossibile, perché ogni epoca nelle varie manifestazioni della vita individuale e sociale ha i suoi miti. Faccio riferimento a quelli più comuni, da cui ancora oggi molti sono imbrigliati: le varie ideologie, i vari modelli politici, le varie superstizioni e credenze, ma anche l'esaltazione di attori, calciatori, squadre....

Tali miti possono esercitare delle influenze benevoli perché creano condivisioni di obiettivi sociali da conseguire e quindi coesione sociale, offrono agli individui delle finalità da conseguire, oppure dei modelli da emulare... ma spesso, purtroppo, questi miti, appunto perché fondati su sentimenti e fede, sono accettati come risultati ultimi della ricerca per cui ottundono le menti umane, bloccano la criticità e la creatività del pensiero, sfociano nel fanatismo. Spesso coloro che condividono alcuni miti si scontrano con altri, che sostengono miti diversi. Si alimenta in tal modo la faziosità, che può sfociare in scontri di gruppo, in conflitti sociali, nelle guerre.
Bisognerebbe aver sempre presente che i miti sono anch'essi creazione umana, e come tali possono facilmente cadere ed evolvere; ma può accettare questa consapevolezza chi è avvinto dal mito?

giovedì 7 agosto 2008

Il gelso rosso

Era una serena mattina di luglio e i ragazzi alla spicciolata uscivano dalle tende e respiravano l'aria frizzante del primo mattino. Sull'orizzonte una grande palla di fuoco faceva presagire che sarebbe stata una di quelle giornate infuocate d'estate. I ragazzi si lavarono, indossarono i vestiti per l'escursione, quindi si radunarono per l'alzabandiera, recitarono le preghiere del mattino quindi la guida espose il programma della mattinata: “...oggi visiteremo una masseria, è alquanto lontana, bisogna sbrigarsi...”
I ragazzi fecero colazione, e s'incamminarono verso la masseria, per abbreviare il percorso decisero di seguire il viottolo che sovrasta l'acquedotto. Sembrava un piccolo drappello dell'armata Brancaleone, che andava alla conquista di nuove esperienze, qualcuno si era armato di bastone recuperato dai rami secchi al margine del viottolo.
Tra discussione e alcuni canti di gruppo si arrivò alla masseria. La guida, un giovane di qualche anno più grande dei ragazzi, raccomandò di tenere un comportamento corretto e di stare attenti ai cani e agli altri animali che erano nell'aia, quindi richiamò l'attenzione del massaro, lo salutò e presentò il gruppo dei ragazzi, questi salutarono a loro volta ed entrarono nell'aia. Altri operai si resero disponibili a guidare il gruppo.
Visitarono le stalle e i recinti dove erano le mucche, quindi a gruppetti visitarono i laboratori dove il latte veniva trasformato in formaggio. A tutti furono offerti dei provini dei formaggi e delle ricotte che produceva la masseria. Tutto si svolse con gentilezza e cortesia e con tanta attenzione dei ragazzi.
La calura di luglio si era elevata e i ragazzi trovarono rifugio sotto un grande albero, era un albero di gelso rosso. Qualcuno incominciò ad osservare i frutti, poi decisero di chiedere il permesso al massaro di poterli raccogliere. All'assenso di questi subito ringraziarono e incominciarono la raccolta, i più ardimentosi si arrampicarono sull'albero. Per le scosse da una “frasca” si staccò un gelso e cadde sulla maglietta di un ragazzo; questi ritenendo che il gelso fosse stato lanciato da un suo amico rispose con un lancio di un altro gelso. Incominciò una battaglia e in poco tempo i ragazzi, con le mani rosse per il liquore che emanava dai gelsi, impiastrarono di rosso tutti i vestiti. Sopravvenne la signora del massaro, che, visto la furiosa battaglia, richiamò con voce alta i ragazzi, “ragazzi le macchie di gelso non vengono facilmente via con il bucato, state rovinando i vestiti, smettetela”. I ragazzi sbigottiti smisero, si guardarono e scoppiarono in una grande risata, ci fu qualcuno che incominciò a recriminare dell'accaduto gli altri, avviene spesso così che per giustificare il proprio operato si scarica la responsabilità sugli altri. Era ormai l'ora del ritorno, né c'era la possibilità di una doccia né la possibilità di cambiarsi gli abiti, la guida ordinò il ritorno, era necessario giungere al campo all'ora di pranzo. Tutti sudici di rosso di gelso, stanchi sotto l'arsura del sole di luglio, i ragazzi, come gli ultimi reduci della disfatta di Waterloo, ripercorsero il cammino del mattino per il rientro.
L'arrivo fu puntuale, ma la vista dei ragazzi così sporchi e malconci allarmò le mamme, volontarie addette alla cucina, e don Vincenzo. Questo sacerdote, che dedicava la sua opera soprattutto ai ragazzi, era l'unico organizzatore e responsabile del campo. Appena arrivati, i ragazzi ripresero la ricusazione delle responsabilità; don Vincenzo, come era suo solito con ilarità ma con decisione, raccolse i ragazzi e fece loro osservare tra l'altro come il male è sempre presente nell'animo degli uomini anche nei momenti più sereni e più belli, quindi esortò i ragazzi a mettere da parte rancori, egoismi e aggressività e a curare con maggiore impegno la solidarietà e l'amicizia.
Il pasto era pronto e le donne chiamarono a tavola i ragazzi, che affamati e assetati com'erano non si fecero rinnovare l'invito come spesso accadeva.

mercoledì 6 agosto 2008

Egregio Onorevole

Durante il periodo della mia giovinezza ho vissuto con entusiasmo la vita politica del tempo; anche se con contrapposte linee politiche si dialogava con i compagni e spesso si passavano intere serate a discutere le varie opinioni.
Nella piazza principale del paese spesso si tenevano dei comizi, soprattutto, ovviamente, in prossimità delle elezioni, e la piazza era quasi sempre gremita dal popolo. Allora ero un democristiano e partecipavo ai comizi dell'on. Aldo Moro, iscritto nella lista per la Camera del Collegio elettorale Bari-Foggia, che con stile sobrio ed elegante dipanava la sua linea politica con decisa fermezza, ricevendo applausi e approvazione anche dalla parte avversa.
Per il Senato candidato unico per la Democrazia Cristiana nel collegio, che comprendeva anche il mio comune, era Onofrio Iannuzzi, un grande oratore, che riusciva a galvanizzare la piazza con i suoi discorsi, e, pur esprimendo una critica ideologico-politica, aspra in quel momento, era sempre rispettosa dell'opinione altrui, e comunque non scadeva mai in volgarità.
I cittadini alla fine del comizio si soffermavano a discutere, confrontando le proprie valutazioni sia di adesione che di opposizione.
Ho ricordato questi due onorevoli, ma anche gli altri, di maggioranza e di opposizione, si distinguevano per solidità culturale-ideologica e per eleganza di stile.
Anche quando teneva i comizi Almirante, che pure sollevava delle serie tensioni per il forte conflitto ideologico dell'epoca, non veniva meno il reciproco rispetto e l'eloquio era sostenuto e di stile elevato.
Da tempo rilevo che il dibattito politico, pur non mancando di acute riflessioni politiche ed economiche, spesso scade in diatribe di parte. Inoltre il comportamento e il linguaggio dei leaders di grandi partiti sta diventando goliardico e triviale. Di riflesso tale linguaggio viene ulteriormente aggravato dai loro seguaci, che nella rete internet invece di confrontarsi sulle questioni politiche con serenità, tifano per uno e l'altro schieramento con un linguaggio che spesso riprende quello dei leaders nelle espressioni più colorite. Non è bello leggere volgarità nei dibattiti che dovrebbero essere “politici”.
Ritenevo che la nostra società avesse avuto un notevole progresso di civiltà e di cultura, ma dalle considerazioni suddette mi sembra che si vada verso un imbarbarimento, e ciò viene ulteriormente confermato quando per scusare alcune espressioni volgari dei leaders si dice “stava parlando alla pancia del suo partito”. È mai possibile che un leader di altra epoca rivolgendosi agli operai e a dei “rozzi” contadini usava un linguaggio decoroso ed elegante, mentre oggi per farsi capire debba usare un linguaggio volgare se non scurrile?
Se il linguaggio denota l'animo dell'uomo ...

martedì 1 luglio 2008

Un paese senza immondizia

Negli anni 1940-50 nei piccoli centri urbani, come Ruvo di Puglia, la spazzatura non era ancora diventato un grave problema.
Nelle case non si produceva tanta spazzatura perché non c'erano né oggetti di plastica né buste di plastica. I vari imballaggi di carta o di legno venivano riutilizzati fin quando era possibile, quindi venivano bruciati nel camino domestico (in quegli anni si cucinava nei camini o su cucine a legna).
Gli abiti venivano usati fino all'usura quasi totale: prima venivano usati quando si usciva la sera in piazza, o per incontrasi con amici e parenti in città; poi si indossavano per il lavoro, e spesso le mamme quando i vestiti erano in parte rotti cercavano di rattopparli. C'era un detto che sollecitava all'igiene che diceva: non bisogna vergognarsi delle toppe ma delle macchie e della scarsa igiene. Quando i vestiti erano mal ridotti alcuni venivano trasformati in strofinacci, altri erano scambiati con altri oggetti o venduti agli straccivendoli, che passavano spesso nel paese. Persino i capelli delle donne, che cadevano nella pettinatura, erano raccolti e venduti.
Tegami di alluminio o di rame rotti e non più utilizzabili, e altri arnesi di metallo erano venduti ad alcuni acquirenti, che più volte durante la settimana, passavano con il loro carretto trainato dall'asino.
I residui dei prodotti agricoli erano riciclati, la morchia dell'olio era venduta per fare il sapone, se proprio non lo si faceva in casa; il mallo delle mandorle era bruciato per ricavare sostanze chimiche; le bucce dure delle stesse erano una risorsa, perché avevano un alto potere calorico ed erano utilizzate dai fornai, che le bruciavano per riscaldare il forno e ne ricavano la carbonella, che la rivendevano per uso domestico: per cucinare o per riscaldare la casa durante l'inverno.
Anche la cenere spesso era utilizzata per preparare la lisciva, molto utile per pulire la biancheria.
Le giare, le brocche e spesso i grandi piatti di terracotta erano riparati da artigiani ambulanti con punti di ferro e cemento.
I contadini, che erano la maggioranza della popolazione, portavano nei campi gran parte dei residui umidi della cucina, quindi rimaneva poca spazzatura che durante la notte o al primo mattino veniva accumulata agli angoli delle strade. Questa veniva raccolta dagli spazzini, che con con una pala la caricava su un carro e tutto restava pulito.
Una maggiore attenzione richiedeva la pulizia delle strade: queste se nel centro storico fino al corso erano lastricate, nel resto del paese erano sterrate o brecciate (ricoperte di sassi spezzati in modo da trattenere la terra e per evitare l'accumulo di fango), inoltre erano frequentate da carri trainati da muli o cavalli, che spesso lasciavano escrementi. Questi resti, quotidianamente, erano raccolti con particolari scope e pale dagli addetti all'igiene urbana.
Non c'era una grave difficoltà per lo smaltimento di tali rifiuti, perché, tranne qualche residuo di ceramica o di vetro, erano quasi tutti di sostanza organica che venivano dispersi in alcuni campi come concimazione, particolarmente accettati erano i residui raccolti dalle strade periferiche più frequentate dai carri.
Non ricordo questi fatti con rimpianto, perché all'epoca non c'erano il benessere e l'igiene dei nostri giorni, tuttavia è da ammirare come i nostri padri riuscivano ad utilizzare e a riciclare quei beni che riuscivano a produrre. Oggi, invece, produciamo una grande quantità di beni, che usiamo solo in parte e poi buttiamo via, accumulando una grande quantità di rifiuti che spesso non riusciamo a gestire.

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Il problema spazzatura

Riprendo il discorso sui rifiuti solidi urbani di una cittadina con una popolazione prevalentemente dedita all'agricoltura. (Riferisco le mie esperienze)
Intorno agli anni 60 i problemi dello smaltimento dei rifiuti incominciano ad evidenziarsi. La diffusione delle lattine e della plastica fanno crescere i rifiuti solidi urbani che non possono più essere versati nei campi, non servono per la concimazione, creano disagio alla coltivazione e sono inquinanti.
Si diffondono le cucine a gas e non si bruciano i residui della carta e del legno; la popolazione, pur occupata in maggioranza nell'agricoltura, si articola con altre attività economiche e impiegatizie, i cui addetti generano maggiore quantità di rifiuti che non posso smaltire da sé; inoltre le strade vengono tutte asfaltate, si sviluppano nuovi prodotti per l'igiene della casa, si sviluppa il consumo, diminuisce la sensibilità al recupero, pertanto si accumulano maggiore quantità di residui.
Cambia la raccolta dei rifiuti urbani: non possono essere versati all'angolo delle strade, ma sarà raccolta, come si dice ora “porta a porta”, non più con carri a trazione animale, ma con mezzi meccanizzati.
I netturbini durante la prima mattina passavano e con i fischietti segnavano la loro presenza, le mamme o i ragazzi uscivano di casa e versavano le pattumiere sui carretti con bidoni dei netturbini, quindi passavano gli autocarri che caricavano la spazzatura per trasferirle nelle discariche.
Siamo nel cosiddetto periodo del “boom economico” la società cambia, il benessere si incrementa sempre di più, crescono i consumi, crescono a dismisura gli scarti, a cui solo pochi si interessano, la soluzione più facile e più comune diventano le discariche.
Anche le industrie pensano alla produzione di beni, con tecnologie sempre più sofisticate, con la ricerca di nuove materie sintetiche, con lo sviluppo di prodotti chimici, ma non si preoccupano dei residui e degli scarti, che versano nei fiumi o nelle discariche a cielo aperto.
Mentre ci si preoccupa del benessere, si sta creando un disastro ecologico.

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venerdì 27 giugno 2008

2008 Napoli assediata dalla spazzatura

Nel mio immaginario, e ritengo nell'immaginario di tanti, Napoli è presente come la città del Vesuvio e del mare in cui si rispecchiano le case, le chiese, i castelli. Napoli è la città del canto, dell'armonia, del bello. Certo avevo notizia anche della povertà e di una certa confusione in alcune parti della città, mi invitavano a stare attento in alcuni quartieri, ma io ero preso dal fascino di Napoli. L'ultima volta che sono stato a Napoli, forse perché c'era un maggior caos per i lavori della metropolitana, forse perché alcune vie del centro storico erano transennate, guardando i grandi edifici con i fregi e varie decorazioni, mi venne in mente una metafora per esprimere le sensazioni che provavo per Napoli in quel momento, una bella e nobile signora alquanto trascurata.
Oggi non voglio andare a vedere Napoli con i cumuli di spazzatura; spero che quanto prima si risolva tale malanno e Napoli ritorni a risplendere e a riprendere il ruolo di capitale dell'arte e dell'armonia.
Guardando i cumuli di spazzatura delle città, vediamo che essi sono composti prevalentemente da imballaggi di legno, di cartone, di plastica e di polistirolo; si possono vedere lattine e bottiglie di vetro e tanta carta e alcune volte vecchi elettrodomestici e alcuni mobili rotti, oltre naturalmente ai residui di cucina e della pulizia della casa.
Se prestiamo un po' di attenzione gran parte dei rifiuti possono essere riciclati. La carta, la plastica, il vetro, i vari metalli opportunamente selezionati possono essere trasportati nelle aziende di trasformazione e creare nuova materia prima per altre industrie di settore, in tal modo si eliminerebbe la maggior parte della spazzatura, si svilupperebbero nuove aziende e quindi si incrementerebbero anche i posti di lavoro, di conseguenza si ridurrebbe il consumo di nuove materie prime.
Le parti umide, i residui di cucina, ricche di sostanze organiche possono facilmente essere trasformate in concime per l'agricoltura. La parte restante richiede una maggiore attenzione perché sono sostanze speciali e vanno adeguatamente trattate come i residui industriali.
È necessario responsabilizzarsi e organizzarsi.
Forse entrano in conflitto tanti interessi economici, pertanto la “comunità politica” deve assumersi la responsabilità di orientare ed eventualmente intervenire con sussidi economici per rendere remunerative le attività di riciclaggio, piuttosto che accumulare montagne di rifiuti che avvelenano il territorio e i suoi abitanti.
Gli inceneritori o i termovalorizzatori dovrebbero essere la soluzione ultima per superare l'emergenza e la difficoltà della raccolta differenziata o la incuria di tanti verso il bene comune.


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Il ciclo della vita

Non è necessario essere un grande esperto di biologia per capire che in natura esistono dei cicli biologici: l'acqua evapora e forma le nuvole, queste danno la pioggia che ridistribuisce l'acqua agli essere viventi... L'alimentazione oltre al nutrimento genera anche sostanze organiche per le piante... La nascita e la morte sono il ciclo della vita...
Gli uomini, per la loro sopravvivenza, forzano la natura a incrementare i propri frutti. Con l'esperienza accumulata in millenni di attività, l'uomo ha appreso tecniche sempre più sofisticate per aggredire la natura e costringerla ad offrire nuovi prodotti, ma spesso ha avuto di mira i vantaggi immediati senza prendere in seria considerazione l'interruzione dei cicli della natura, creando in tal modo dei gravi disastri ecologici.
I fiumi sono diventati putridi per l'abitudine di scaricare i reflui delle industrie, le fonti di acqua potabili sono sempre più malsane, i campi dove vengono smaltiti i rifiuti non sono più produttivi, la stessa aria diventa irrespirabile diffondendo malattia e morte.
Da tempo si è diffusa una cultura ecologica soprattutto nelle regioni in cui c'è stato un maggiore sviluppo industriale, e ci si è reso conto della necessità di ripristinare i cicli interrotti della natura. In un convegno tenutosi a Busto Arsizio, a cura dell'Associazione degli industriali negli anni '80, si affermava con orgoglio l'esaltante valenza della scienza contro la cultura umanistica, e tra l'altro si rispondeva, con grande fiducia, a chi evidenziava i disastri ecologici creati dalla scienza che la stessa scienza avrebbe risolto i problemi da essa posti.
Oggi, da quelle poche notizie che ho, in molte regioni si sta provvedendo a depurare i fiumi, a riciclare i rifiuti solidi urbani; anche molte industrie cercano di ridurre il negativo impatto ambientale, con l'abbattimento dei fumi, con la depurazione delle acque, con la riduzione degli scarti e con uno smaltimento più oculato degli stessi.
Vorrei sperare nella capacità dei ricercatori di ripristinare in tutti gli ambiti produttivi i cicli della natura per permettere alle future generazione di vivere in un mondo salubre.
É necessario per difendere la vita la responsabile solidarietà della scienza, delle attività produttive e della “comunità politica”.

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giovedì 15 maggio 2008

Identità e analogia

Si afferma l’identità quando si riconosce un individuo per quel che è.
Identico significa essere se stesso e per gli altri individui significa che essi sono ciò che sono.
Aristotele sostiene l’identità col principio di non contraddizione:
“è impossibile che la stessa cosa insieme inerisca e non inerisca alla medesima cosa e secondo il medesimo rispetto.” (Metafisica, IV, 3)
“é impossibile che la stessa cosa sia e insieme non sia” (Metafisica, IV, 4)
Ovvero da un punto di vista logico non si possono affermare e negare contemporaneamente le stesse caratteristiche ad uno stesso soggetto, da un punto di vista ontologico non si può affermare e negare l’essere di un soggetto.
Tale principio difficilmente può essere messo in discussione, è immediatamente intuitivo, le difficoltà iniziano quando si vuole definire l’essere-identico. Ci sono coloro, come Eraclito, che sottolineano il continuo fluire della vita e quindi la difficoltà di definire qualsiasi essere; altri, come Aristotele, ritengono che c’è un elemento fondamentale negli esseri, la sostanza, che regge le loro varie caratteristiche: per es. Mario, dal concepimento alla morte è sempre Mario, anche se nel tempo assume varie caratteristiche: bambino… giovane… anziano, sano… malato, smemorato… intelligente, lento… veloce, studente… operaio… professionista, ecc.
Ma la sostanza, questa unità o sintesi fondamentale difficilmente potrà essere colta completamente, per cui l’essere-identico, rimane un concetto limite della conoscenza.

Se con difficoltà può essere affermata l’identità per i singoli soggetti, è impossibile dichiarare l’identità di due o più soggetti. Per oggetti costruiti con la stessa struttura e nello stesso modo si può parlare di similitudine, anche se spesso si dice impropriamente che c’è identità tra questi oggetti.
Se passiamo a considerare qualsiasi soggetto naturale, sarà più coerente parlare di analogia, infatti è impossibile che due soggetti siano identici: possono essere più o meno simili, ma identici mai, altrimenti sarebbero lo stesso soggetto. Inoltre la nostra conoscenza nasce dalla relazione di noi stessi con il mondo che ci circonda e dal confronto che noi operiamo dei vari esseri. Pertanto, non conoscendo esaurientemente né noi stessi né il mondo che ci circonda, non ci resta che una conoscenza tramite l’analogia, che ci permette di cogliere gli aspetti simili degli esseri che cadono nella nostra esperienza o scienza, con la consapevolezza di non cogliere appieno la loro identità.


Nella relazione noi ci poniamo come metro di confronto e di interesse con gli altri individui: spesso riteniamo che gli altri siano identici a noi e pretendiamo che questi pensino e si comportino come noi. Non consideriamo che la fisicità e l’esperienza esistenziale (lavorativa, interrelazione, culturale) di chi ci sta di fronte possa essere molto diversa dalle nostre; per cui i punti di visti e le prospettive, anche quando sembrano essere molto simili o “identici”, di fatti hanno in sé ampi spazi di divergenze se non di conflittualità, sono analoghi.
Le difficoltà del dialogo tra individui, come tra i popoli, sorge dalla mancata considerazione della analogia esistente tra gli individui. Se ci soffermiamo su alcuni aspetti fisici e umani, consideriamo gli altri identici a noi e misuriamo il loro comportamento secondo il nostro modo di vedere, di fatto la vita di ciascun individuo è più complessa e spesso molto lontano da noi. Solo il dialogo e il “convincimento reciproco” potrebbe far emergere la differenza e la similitudine per una possibile convivenza.

Anche le scienze si dibattono tra identità e analogia.
Infatti le scienze, con l’analisi e la descrizione sempre più accurata e profonda dei vari oggetti di loro competenza, cercano di coglierne l’“identità”.Quindi, utilizzando il metodo statistico, e un procedimento analogico, definiscono modelli di comportamento o modelli interpretativi degli esseri sottoposti al loro controllo. Da ciò consegue la massima prudenza nella valutazione e nell’applicazione dei risultati ottenuti.

Analisi dei termini secondo il significato

Un termine può essere usato per significare uno o più oggetti, per cui può essere detto univoco, equivoco e analogo.
Un termine è univoco (dal latino unus, uno, e vocare, chiamare) quando esprime un solo significato.
Un termine è equivoco (dal tardo latino aequivocus, chiamato in modo uguale) quando ha dei significati del tutto diversi. Per esempio il termine “toro” può indicare l’animale toro, la costellazione Toro, il monte Toro.
Un termine è analogo (dal greco ảnalogìa, relazione) quando indica più esseri che hanno caratteristiche in parte simili in parte diverse. Per esempio il termine “vivente” può essere attribuito ad una pianta, ad un animale, all’uomo, nei tre casi presi in considerazione indica la presenza della vita (nascita, crescita, morte) tuttavia il vivere della pianta, dell’animale e dell’uomo sono molto diversi.

Nella filosofia dell’antica Grecia è stato rilevante il problema circa la possibilità di conseguire la verità.
Parmenide afferma che l’unica verità è l’Essere, infatti se consideriamo la verità come una conoscenza, che coincida esattamente con l’oggetto conosciuto e che valga per sempre e per tutti, non può essere altrimenti. Tuttavia questo Essere deve essere ingenerato, imperituro, immobile e l’esperienza sensibile umana non avrà alcuna valida giustificazione perché si nutre della molteplicità e del movimento.
La sofistica con Gorgia dimostra l’impossibilità della conoscenza dell’Essere e della verità, pertanto affida al dialogo e alla forza della parola ogni relazione umana.
Con Socrate, Platone e Aristotele si tenta di giustificare la possibilità di conseguire la verità superando il modo di pensare di Parmenide. Il termine Essere, che Parmenide usava in modo univoco, precludendosi ogni altra conoscenza vera, per Platone assume vari significati, i sommi generi; pertanto esiste l’essere identico, l’essere diverso, l’essere in quiete, l’essere in moto. Anche Aristotele afferma che il termine essere ha vari significati, le categorie; in tal modo prima Platone poi Aristotele attribuendo al termine essere vari significati potevano spiegare la molteplicità degli esseri, e il movimento altrimenti inspiegabili per Parmenide.
Con la logica medioevale verrà precisato l’uso analogico del termine, già di fatto utilizzato da Platone ed Aristotele.
Tommaso d’Aquino, utilizzando arditamente l’analogia, oserà parlare di Dio, rapportandolo all’uomo.

venerdì 18 aprile 2008

Le scienze umanistiche

Sin dall’antichità gli uomini, oltre a guardarsi intorno per scoprire e per usufruire del territorio circostante, si sono posti delle domande circa la propria esistenza, ovvero che ruolo avevano nella natura e come dovevano comportarsi per vivere nel miglior modo (per essere felici). A queste domande hanno risposto come hanno potuto, con gli strumenti in loro possesso.
L’immaginazione primitiva considerava ogni essere, in analogia all’uomo, come esseri animati: il cielo, la terra, il mare, gli astri, il vento…erano esseri viventi, anzi divinità; anche molti stati d’animo o virtù come la giustizia, la bellezza, la legge avevano analogie con l’uomo, erano divinità con sembianze e comportamenti umani. Tutti gli esseri vivevano in rapporto tra loro, a volta in lotta, a volta in amicizia, nell’insieme formavano l’armonia della vita.
Ma l’uomo aveva qualcosa che lo differenziava dagli altri esseri, la mente che gli permetteva di forgiare gli strumenti per produrre il necessario per soddisfare i propri bisogni, e la virtù politica, che liberandolo dalla solitudine, lo rendeva più forte.
Gli argomenti dell’ordine, dell’origine delle leggi, della giustizia hanno dato vita dall’antichità ai nostri giorni a vivaci dibattiti, a volte a lotte sociali, maturando in tal modo cultura e modi di vita associata, creando ciò che noi oggi diciamo civiltà.
Intanto si cercava di definire un ruolo dell’uomo all’interno della natura, distinguendolo dagli altri esseri viventi, e un ruolo all’interno della stessa società, che lentamente si andavano costituendo. Emergevano in modo più decisivo le discussioni sul comportamento dell’uomo per vivere una vita armoniosa, ovvero serena e felice.
Le risposte a tali problemi sono state svariate, tuttavia, in modo molto sommario, si possono ridurre a due. Alcuni, rimpiangendo uno stato naturale innocente e felice, vogliono che il comportamento umano sia lasciato alla spontaneità, o, esagerando, all’irrazionalità della volontà. Altri, ritenendo che con il dibattito politico l’uomo ha guadagnato una maggiore sicurezza e maggiori vantaggi, affermano che con la conoscenza e con la ragione gli uomini devono stabilire delle norme politiche ed etiche per un ulteriore progresso.
Il rimpianto della naturale spontaneità spesso riemerge nei sentimenti umani, ma la conoscenza e la ragionevolezza degli uomini hanno permesso lo sviluppo dell’umanità, anche se non hanno conseguito né conseguiranno mai una definitiva organizzazione.
Oggi ci sono città con centinaia di migliaia, alcune volte di milioni, di individui, che vivono uno accanto all’altro, e ciò è possibile grazie alle conquiste della conoscenza umana. Sarebbe stata possibile una tale convivenza senza leggi, senza una maturità civile, senza un’etica condivisa?
Certo non tutti possono condividere tali considerazioni, perché nella società permangono tanti problemi irrisolti, e molti non trovano in essa un posto secondo le proprie aspettative, tuttavia non si intravede un’altra via se non una continua e ulteriore ricerca razionale per migliorare il presente.
Oggi varie scienze si occupano della società, spesso a loro volta suddivise in varie specializzazioni: filosofia, scienze giuridiche, scienze politiche, psicologia, sociologia…. Tutte contribuiscono a una maggiore consapevolezza dell’uomo e delle comunità in cui vive. I progressi della scienza pongono ulteriori e gravi interrogativi non solo sul comportamento individuale e comunitario, ma anche sui limiti di intervento sulla vita umana, sia al momento della nascita sia al momento del termine della vita: la bioetica.

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La conoscenza

In alcuni momenti della nostra vita, sia in quelli che appaiono i più sereni che in quelli più difficili, ci chiediamo chi siamo? quale valore ha la nostra vita? Perché…? Perché…?
Nel porre le domande e nel tentativo di rispondere diamo per scontato la nostra esistenza materiale, la nostra corporeità; le nostre domande vertono piuttosto sul senso della nostra esistenza, perché mentre ci sentiamo soggetti attivi, autosufficienti e liberi, nel nostro operare ci rendiamo conto dei limiti delle nostre potenzialità e delle enormi energie che ci sovrastano e ci condizionano.
Eppure bisogna cominciare la nostra ricerca da ciò che riusciamo o comprendere con una relativa certezza: il nostro essere e il mondo circostante.

La conoscenza è determinante nell’agire umano, anche se spesso il nostro comportamento sembra essere sostenuto da impulsi irrazionali, sentimenti, passioni, conformismo. Si ritiene di solito responsabile solo chi opera con consapevolezza, ovvero colui che opera con cognizione dei fatti, con conoscenza e razionalità. I tribunali emettono le loro sentenze solo di fronte alla piena consapevolezza, altrimenti non condannano o riducono la pena.

La vita dell’uomo, dall’origine dell’umanità ad oggi, oppure dalla nascita di un uomo fino alla morte, si intreccia, si identifica soprattutto con la sua conoscenza.

Nel corso della storia la conoscenza si sviluppa e ramifica in ogni settore dell’esistenza umana primo fra tutti quello della ricerca dei mezzi per soddisfare i propri bisogni quali il mangiare, il ripararsi dalle avverse condizioni della natura, il difendersi dagli altri animali soprattutto da quelli più forti di lui. Né trascura di porsi domande sul senso della vita, e sul rapporto da tenere con i propri simili.

Oggi viviamo in una società in cui la conoscenza si è spezzettata in tante specializzazioni, affrontando in modo settoriali i problemi dell’umanità; anche se in molti c’è consapevolezza della necessità di una visione globale del sapere, spesso si smarriscono nel chiuso della loro specificità.
La più grave scissione del sapere è quella tra scienze sperimentali e scienze umane, come se le une e le altre non avessero la loro origine dalla stessa umanità e non avessero la stessa finalità, ovvero quella di migliorare e offrire maggiore consapevolezza all’agire umano e quindi al benessere dell’uomo.

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lunedì 24 marzo 2008

Vaghi ricordi

Mario incominciava ad uscire insieme a suo fratello più grande di due anni, e con altri bimbi si soffermava a giocare nella strada della casa.
Era una strada raramente frequentata dai traini, da un lato c’era l’ultimo isolato del paese, dall’altro c’erano i campi degli ortolani. Sul lato degli orti c’era una costruzione adibita a bottega di stagnino, in fondo c’era un’altra costruzione adibita a stalla-rimessa, seguiva, appena svoltata la strada una piccola officina di fabbro che svolgeva anche la funzione di maniscalco.
I bambini giocavano e strillavano in questo spazio, si confrontavano e socializzavano, osservavano come lo stagnino e gli altri artigiani realizzavano i vari manufatti.
Mario era attratto dalla capretta, che era legata alla porta dello stagnino. In molte botteghe di periferia si allevava qualche animale di aia per la produzione del latte o di uova se non proprio di carne per la propria famiglia. Anche in tante case, che disponevano di piccoli spazi, sulla strada o sui terrazzi, si allevavano delle galline, in alcune soffitte anche dei conigli per il consumo famigliare. Per cui non era raro il caso che sulle strade, non ancora asfaltate, starnazzava del pollame.
A tal proposito Mario ricorda l’enorme scrofa che veniva allevata dal fabbro su menzionato, che una volta partorì tanti maialini, che divennero per un po’ di tempo l’attrazione e la lamentela dei vicini. Mario vide con rammarico caricare questa grande scrofa su un camion e poi non vide più neppure i maialini.
La capretta dello stagnino era l’attrazione del piccolo Mario, che diventava fonte di gioia quando, stando con il nipotino dello stagnino e sempre controllato a vista dal suo fratellino, gli veniva concesso di accarezzarla o di guidarla nei prati vicini mentre questa pascolava.

martedì 18 marzo 2008

Ottosanti

Un rullo di tamburo rompe il profondo silenzio della notte, la mamma si sveglia; passano i Santi!
Indossa in fretta i vestiti quotidiani, va verso il lettino dei figliuoli che dormono con tanta tenerezza, ma la sua fede non la frena, su Mario! su Nicola! Passano gli Ottosanti!
I bimbi a stento si svegliano, si stropicciano gli occhietti. La mamma fa indossare i loro vestiti e li porta sul balcone più vicino per vedere la processione.
Fa freddo, invoca aiuto al papà che prende il suo pastrano e avvolge i due bimbi.
Per la strada passano tante ombre oscure, molte si fermano ai margini della strada si salutano in un attimo e attendono in silenzio.
Il rullo di tamburo si fa sempre più forte ed ecco appare una croce con i simboli della crocifissione ma senza il crocifisso, le ombre inchinano la testa e si segnano nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito.
I bimbi guardano con occhi attoniti tante donne vestite di abiti oscuri con in mano un cero, da cui emerge una pallida luce perchè la fiammella è protetta dal vento.
Passi lenti, preghiere sommesse, rullo di tamburo si alternano al silenzio.
“Adesso passerà Gesù” suggerisce la mamma tenendo svegli i bambini e attirando la loro attenzione sull’evento.
Un altro simbolo di croce e alle consorelle seguono i confratelli, anche questi portano i ceri accesi ma sono vestiti di lino bianco e coperti da un copricapo anch’esso bianco.
Si sente lontano un suono lento e straziante che trascina e commuove.
Guardate tra le due file di confratelli passano dei bambini vestiti di porpora, coronati di spine e sulle loro piccole spalle una croce, sono i “cristčìdde”, ecco, continua la mamma, san Giovannino vestito con pelle di pecorella, coi i grandi taralli nella bisaccia, e la Maddalena con il viso coperto dai lunghi capelli.
La banda si sente più forte e struggente, si sente un profumo di incenso, la luce si fa più diffusa, appaiono i santi.
Sono gli Ottosanti che portano Gesù morto al sepolcro, gli ultimi sono la Madonna e San Giovanni, poi Maria Maddalena, il primo è Giuseppe di Arimatea.
Sarebbe troppo lungo elencare tutti i santi, la mamma è preoccupata che i bimbi guardino Gesù, “date il bacio a Gesù”, e questi nel loro fagotto liberano le manine, le portano alle labbra e lanciano il loro bacio a Gesù. Che intanto attraversato il tratto di strada visibile dal balcone scompare coperto dalle mura delle case.
C’è tanta gente, le autorità del comune e la banda che continua a suonare le meste musiche della Settimana Santa.
La mamma abbraccia il figlio più piccolo, prende per la manina il più grande e li riporta al caldo lettino.
Sono le quattro del mattino e lei riprende le faccende di casa, che si moltiplicano all’avvicinarsi della Pasqua, ma prima deve preparare i taralli e le ciambelle, perché fra poco passerà il fornaio a ritirarli.

venerdì 15 febbraio 2008

Politica

La politica è un’attività umana complessa, è una matassa difficile da dipanare perché deve gestire l’agire e il vivere civile di un popolo, ovvero deve coordinare e sintetizzare i bisogni, le aspettative di tanti individui, a loro volta carichi di tanti e vari eventi esistenziali.
Ma proviamo a cogliere i fili essenziali di tale groviglio.

La fondamentale finalità dell’attività politica e quindi dell’opera del governo è quella di permettere una vita ordinata e pacifica
L’ordine e la pace possono essere assicurati se c’è un’equilibrata distribuzione dei beni, in modo tale da permettere il soddisfacimento dei bisogni degli individui.
I governi non possono eliminare l’iniziativa e la libertà individuale nell’attività produttiva ed economica, tuttavia quando questa si sviluppa in modo tale da essere pregiudizievole per un dignitoso sviluppo degli altri, devono intervenire al fine di evitare possibili conflittualità.

Gli individui nel corso della loro esistenza maturano una loro coscienza, una propria cultura o religione, a cui non intendono rinunciare.
La comunità politica non può negare la libertà di coscienza, tuttavia deve vigilare, affinché le culture non degenerino in intolleranza verso le altre, e deve limitare quelle che avessero in se stesse dei principi delittuosi.

Lo stato nasce non solo per eliminare i contrasti tra i cittadini ma per sostenere la solidarietà tra loro.
Gli individui quando si uniscono diventano una comunità. Questa per curare il proprio sviluppo, deve sostenere i singoli componenti.
Diventa quindi un compito impellente dello stato il benessere dei cittadini: la salute e l’istruzione sono i due aspetti fondamentali.

Come ogni individuo non può essere chiuso in se stesso, così anche le comunità sono relazionate alle altre.
Lo stato deve sostenere relazioni pacifiche con gli altri stati, in modo da rispettare le loro culture e avere reciproci e solidali scambi economici e culturali. Pertanto deve sostenere anche le iniziative di pace dell’ONU.

L’imponderabile alcune volte diventa determinante nella nostra vita; una comunità deve essere attenta e pronta a individuarlo e a gestirlo.
Nella società purtroppo come in tanti momenti della vita emergono dello forze apparentemente imprevedibili, che possono essere naturali, come catastrofi naturali, terremoti, alluvioni …, ma anche follie di gruppo, egoismi, passioni.
Lo Stato deve cercare, con la prevenzione, di attenuare se non di eliminare le cause delle catastrofi.
Una maggiore attenzione dovrebbe prestare per moderare le passioni con l’educazione.
Alcune volte anche i partiti dovrebbero moderare i toni del dibattito ed essere più razionali e persuasivi, piuttosto che far sfoggio di retorica e di mitologia.

martedì 12 febbraio 2008

Senso del limite

Gli uomini lungo tutto il corso della storia hanno dimostrato una certa consapevolezza dei limiti delle proprie possibilità sia pratiche che conoscitive.

L’impossibilità di conoscere la verità è sorta subito con Eraclito, il quale rilevando la dinamicità della vita ritiene che solo chi è superficiale si illude di poter descrivere ciò che vede con i propri sensi e considerarlo verità; chi è più riflessivo si accorge subito che ogni cosa non si chiude in se stessa ma rimanda ad altro e questo gli rende impossibile la definizione della verità, una conoscenza ben definita e permanente.

I sofisti affermano un soggettivismo conoscitivo: tutto dipende dall’uomo e dalle sue capacità di esprimere ciò che ritiene utile e di convincere gli altri.
Platone con la sua dottrina delle idee, afferma l’esistenza di un mondo della verità, che l’uomo deve ricercare in se stesso purificandosi dalla materialità in cui è ingabbiato dalla nascita.
Aristotele dice che la verità è nelle cose, ma si trova sotto le apparenze che la stessa sostanza sostiene.

Le religione dice che la verità è in Dio, e solo la fede in lui offre la certezza e la speranza di raggiungere la verità.

Durante l’Umanesimo, pur esaltando l’uomo per la sua conoscenza, si sottolinea anche il suo limite, come fanno Cusano, Montaigne e tanti altri.
L’Illuminismo, pur nella presunzione di voler sottoporre tutto al voglio della ragione, riconosce con Hobbes, Voltaire, Locke e tanti altri i limiti della conoscenza umana, e con Hume si cade nello scetticismo.
Kant ha riprovato a porre dei fondamenti alla conoscenza scientifica, delimitando la sua applicazione alla conoscenza sensibile, ma riconosce l’esistenza di un mondo non conoscibile ma intuibile come esigenza della vita morale e politica dell’uomo, attribuendolo oltre che alla ragione, al sentimento e alla fede.
Dopo il tentativo romantico e idealistico di cogliere un assoluto con il sentimento o la ragione, come ritiene Hegel, la ricerca si frantuma in tanti rivoli di ricerca, che spesso affermano il relativismo e l’impossibilità di conseguire la verità.

A questa consapevolezza dei limiti della conoscenza umana, a questo continuo dubbio che pervade il procedere teoretico, nella vita quotidiana non sempre corrisponde un atteggiamento prudente, un’attenzione alle proposte degli altri; al contrario ci si lascia dominare dalle passioni, si ostenta sicurezza, come se tutto possa essere diretto e dominato da ciascun individuo.

domenica 20 gennaio 2008

Follia e Ragione

In pieno Umanesimo, mentre si esaltava la centralità dell’uomo, che per la conoscenza era l’unico essere vivente capace di scegliere il proprio destino, ovvero di scendere verso gli esseri ‘umili’ o di dirigersi verso Dio, (homo faber fortunae suae diceva Pico), Erasmo da Rotterdam scriveva l’Elogio della follia.
Un piccolo saggio in cui, in modo ironico, evidenziava come gli uomini vivono molti momenti della vita in modo impulsivo, lasciandosi dominare dalla follia, invece che dalla ragione.
È appena trascorso il 2007. Quanti momenti di follia si sono susseguiti! Quante opere generose hanno arrecato del bene all’umanità, come tanti slanci di amore e di solidarietà che hanno sostenuto tanti sfortunati, vittime di calamità naturali o da guerre. Ma tanti momenti di follia hanno causato morte e disordini sociali e personali: gelosie famigliari, follie di gruppo. Ancora la bramosia di dominio sconvolge tante popolazioni.
Siamo ormai nel 2008, nell’età postindustriale, dell’informatica, della globalizzazione, ma gli uomini non riescono a dominare gli eventi e le passioni con una saggia razionalità.
Forse vedeva giusto Cartesio quando affermava che gli uomini cadono nel male perché la volontà, l’istinto, sono più veloce della ragione, questa infatti spesso arriva troppo tardi a eventi conclusi, suscitando pentimento per i guai commessi o contentezza per il bene fatto.
Eppure gli uomini si vantano per i grandi progressi della loro conoscenza, né si può negare la forte incidenza che questa ha sulla vita dell’umanità.

martedì 8 gennaio 2008

La scienza politica

Quale sia stato lo stile di vita dei primi uomini lo possiamo solo immaginare.
I filosofi dell’antica Grecia hanno ritenuto la scienza politica una necessità dell’uomo e una facoltà insita in esso. Nel Protagora di Platone Zeus, che si era preoccupato di aiutare il genere umano, dà ordine a Ermes di distribuire a tutti la scienza politica (pudore e giustizia). Aristotele chiama l’uomo animale politico perché, insieme, gli uomini possono rispondere alle necessità della vita.
Durante l’Umanesimo e il Rinascimento mentre viene esaltata la dignità e la libertà dell’uomo, si pone la riflessione sull’origine delle leggi e sul ruolo dei sovrani; si afferma, tra l’altro, il giusnaturalismo.
Nel 600-700 alcuni filosofi hanno immaginato lo stato primitivo dell’uomo e ciascuno, secondo la propria prospettiva, ha immaginato l’uomo come lupo per l’altro uomo, oppure come buon selvaggio, prospettando una propria teoria politica.
Dalla storia dei popoli, che circondano il Mediterraneo, emergono varie forme di istituzioni politiche, che vanno dalla monarchia alla democrazia.
Nel 700 e nell’800, si affermano le istituzioni parlamentari. Intanto vanno maturando i progetti politici del socialismo e della democrazia.
Nel secolo scorso alcune dittature hanno interrotto il corso della democrazia, che tuttavia è riuscita a riemergere dopo gravissime prove.
Ancora oggi si pongono domande sul ruolo della politica e sulla ricerca di strumenti idonei per la partecipazione dei cittadini alla vita dello Stato.
La scienza politica non offre una risposta univoca perché deve trovare una sintesi delle esigenze che provengono dal groviglio esistenziale: esigenza di soddisfare bisogni primari, esigenza di maggiore benessere, conflitti di egoismi personali e di classe, voglia di dominio e di potere e timore di perdere vantaggi acquisiti…
Tutte le tensioni esistenziali vengono sostenute da ideologie o da apparente pensiero critico; anche i teorici che si dicono neutrali vengono travolti nella mischia, direttamente o indirettamente.
La scienza politica non può rimanere nell’ambito puramente teorico, (i politologi offrono degli ottimi contributi di analisi politica e spesso propongono delle soluzioni anche ottimali), ma la politica deve essere viva, ovvero deve coinvolgere tutti i cittadini; perché se manca il senso civico, questi cercheranno di soddisfare individualmente i propri bisogni, e vivranno passivamente se non in contrapposizione ogni decisione delle Istituzioni.
I nemici della politica sono coloro che infondono sfiducia, che parlano di disinteresse dei cittadini, che riducono gli spazi di partecipazione, che controllano i mezzi di comunicazione.
Tuttavia i nemici più temibili vengono dalla miseria e dal disimpegno: tanti cittadini non hanno il tempo per soddisfare i propri bisogni primari e non hanno il tempo per la partecipazione politica; tanti altri, pur avendo l’opportunità di informarsi e di partecipare, si disinteressano, preferendo l’evasione e lo svago all’impegno.