domenica 28 luglio 2013

Caporale Maggiore Nicola Iosca


Il giovane Nicola Iosca, classe 1911, come tutti i giovani italiani ritenuti abili, il 6 ottobre del 1931 diventa soldato di leva e gli viene concesso il congedo illimitato provvisorio, in attesa della chiamata alle armi, che puntualmente gli perviene il 14 marzo 1932.

La maggior parte delle caserme, soprattutto quelle per il reclutamento e l’addestramento delle reclute di fanteria e di artiglieria, era dislocata nel Nord Italia dove erano i confini terrestri dell’Italia e quindi la maggior possibilità di intervento nel caso di guerra. Il giovane Nicola è arruolato al 73° Reggimento Fanteria “Lombardia” e deve recarsi nei pressi di Fiume, allora italiana.

Nel gennaio del ‘33 gli viene attribuito il grado di caporale e nello stesso anno gli viene concesso il concedo illimitato per fine ferma.

Nicola ha superato gli obblighi di leva, si sente più adulto e riprende i suoi sogni giovanili, progettando il proprio futuro. Ma la politica mondiale era fortemente condizionata dall’espansione coloniale e dal nazionalismo. La Prima Guerra Mondiale non era stata sufficiente per dissipare queste velleità. Mentre in Europa si faceva fatica a ridimensionare l’espansionismo della Germania, in Italia Mussoli, esaltando l’offesa subita dall’Italia col Massacro di Adua del 1896, e ritenendo di dover occupare l’Abissinia per espandere la potenza coloniale italiana in Africa, dichiarerà la guerra all’Etiopia, non rispettando questo stato che faceva parte della Società delle Nazioni.

Nicola Iosca il 10 febbraio 1935 è chiamato alle armi, deve riprendere la divisa militare e sospendere la sua vita civile. È aggiunto al 10° Reggimento fanteria Potenza  519° Battaglione Mitragliere.

Dopo un breve addestramento, il primo maggio del 1935 con gli altri giovani commilitoni parte per l’Africa Orientale, la meta è il porto di Massaua nell’Eritrea italiana. Qui, dopo sette giorni di navigazione, sbarcano e preparano il campo base delle prossime operazioni di guerra.

Nei giorni successivi la Divisione di Fanteria Gavinana (la 19°) si concentra nella zona di Adi Gualà-Adi Enda Gherghis ai confini tra l’Eritrea e l’Etiopia. Il 3 ottobre iniziano le ostilità e l’esercito italiano avanza nel territorio abissino. L’esercito italiano è meglio organizzato, munito di armi e di mezzi di trasporto più efficienti e soprattutto sostenuto da aerei, l’esercito abissino dispone di più uomini, riceve armi soprattutto dall’Inghilterra ed è coordinato da consiglieri militari inglesi.

Su una cartolina di saluti, nell’anniversario degli eventi della guerra, il Ten. Coll. Montaruli ricorda a Nicola e ai suoi commilitoni: sbarrammo la valle Mariam Sciavitù con le nostre armi la sera del 5 ottobre 1935 e il 6 scendemmo nella conca di Adua. Nicola ricordava la facilità con cui l’esercito italiano avanzava per la superiorità delle armi in possesso, e non senza un certo senso di tristezza la morte di tanti etiopi che in gran numero e sprezzanti del pericolo affrontavano le mitragliatrici italiane. Ricordava le condizioni di povertà in cui versavano gli etiopi e la scarsa igiene, soprattutto la presenza di tanti pidocchi. Ricordava con simpatia una scimmietta, che, sorridendo, diceva che gli aiutava a liberarsi da tali insetti.

Il 12 aprile il caporale Nicola Iosca è nominato caporale maggiore.

Il 5 maggio del 1936 l’esercito italiano entra in Addis Abeba e il 9 dello stesso mese Mussolini annuncia da Palazzo Venezia la conquista dell’Etiopia e Roma capitale dell’Impero.

Finita la guerra, Nicola e i suoi commilitoni ritornano in Patria. Si imbarcano il 9 luglio 1936 a Massaua dopo 9 giorni di navigazione sbarcano a Napoli.

Il 21 luglio finalmente viene loro concesso il congedo illimitato e un premio di 350 lire; sul foglio di congedo si fa menzione: Autorizzato a fregiarsi della Medaglia Commemorativa  per le spedizioni in Africa Orientale (circ. 26 aprile 1936). Ritorna nel Distretto di Barletta e quindi alla sua famiglia. Può riprendere la sua normale vita civile.

Gli impegni militari per il soldato Nicola non erano finiti; l’Europa era ancora travagliata da passioni nazionaliste ed imperialiste. La Società delle Nazioni si rilevava incapace di risolvere i conflitti internazionali. Hitler e Mussolini avevano stretto il Patto d’Acciaio, ed avevano deciso di imporre la loro egemonia sull’Europa. Scoppia la Seconda Guerra Mondiale.

Il 25 agosto 1939 Nicola Iosca è richiamato alle armi, presso il Distretto di Barletta per istruzione. Il 6 settembre è imbarcato a  Bari per l’Egeo, dopo tre giorni di navigazione giunge a Rodi Egeo dove è aggregato al 9° Reggimento Fanteria.

Le isole del Dodecaneso, sono italiane dal 1912 e rivestono una importante posizione strategica per il controllo mercantile e militare nel Mediterraneo ed è importante presidiarle dalle mire di altre potenze, soprattutto inglesi.

Nicola, incomincia ad essere stanco della vita militare e deve sostenere la propria famiglia a Ruvo di Puglia, pertanto coglie l’opportunità della licenza agricola, che chiede e il 2 ottobre del 39 gli viene concessa una licenza di 60 giorni, prorogata di 20 giorni per ordine di Mussolini.

L’8 dicembre del 1939 gli viene data una licenza illimitata.

Intanto si aprono nuovi fronti di guerra, in Francia e in Grecia, e l’esercito necessita sempre più di mezzi e di uomini. Il 31 maggio 1940 al militare Iosca viene sospesa la licenza straordinaria illimitata ed è richiamato alle armi.

Il 3 giugno è imbarcato a Bari e dopo tre giorni, sbarcato a Rodi Egeo, rientra nel 9° Reggimento Fanteria. Qui presidiano il porto e l’aeroporto da eventuali attacchi inglesi, che per la guerra Italia-Grecia, hanno offerto il loro sostegno alla Grecia contro Italiani e Tedeschi, pertanto si rendono sempre più temibili per eventuali attacchi.

Nicola non riesce a sopportare più tale ritmo di vita, molto probabilmente ha trovato un sotterfugio per uscire da tale situazione, certo è che il 25 febbraio del 1942 è inviato in osservazione all’ospedale militare di Bari, è riconfermato idoneo ma viene assegnato ai servizi sedentari per mancanza di quattordici denti con insufficienza masticatoria.

Il 2 marzo 1942 è ricollocato in congedo illimitato e Barletta

Il 14 giugno 1961 gli viene concessa la Croce al Merito di Guerra   

 

PS. Ringrazio la prof. Maria Iosca per avermi concesso di visionare il Foglio Matricolare e le Foto.

mercoledì 24 luglio 2013

Memorie della Campagna di Grecia


Ad una certa età ci capita di volgerci indietro per rivedere gli eventi trascorsi nella nostra giovinezza e vogliamo raccontarli non solo per il ricordo del passato, ma per sottolineare l’evoluzione della società, per poter apprezzare il percorso fatto e le prospettive future. Emergono soprattutto gli eventi più tristi perché si vorrebbe che non tornino mai più, perché le sofferenze patite non si ripetano per le future generazioni.

Zio Ciccillo ogni volta che si parlava di guerra mostrava un gran desiderio di raccontare le sue tristi vicende della guerra vissuta.

A diciotto anni, Francesco Campanale (detto Ciccillo) come tanti giovani della sua età (classe 1912), ha la cartolina di precetto per il servizio di leva. Adempie i suoi obblighi militari, ritorna nella sua famiglia e come tanti giovani sogna e programma il suo futuro: il lavoro, la famiglia…

Il 28 ottobre 1940 iniziano le operazioni militari per l’occupazione della Grecia. L’esercito italiano, non riesce a sostenere la reazione greca, e deve arrestarsi ai confini della Grecia e in alcuni punti deve anche arretrare. L’esercito ha bisogno di un contingente più numeroso e adeguatamente equipaggiato di armamenti e approvvigionamento. Mussolini, volendo competere con Hitler, non intende manifestare la sua debolezza militare, e nel aprile del 41 dichiara la mobilitazione generale.

Dall’Italia partono altri soldati, tra questi è Ciccillo. Sa quanto è dura la vita militare sul fronte, per le tante esperienze raccontate dal fratello maggiore Giulio, che era stato appena diciottenne sul Monte Grappa, durante la prima guerra mondiale. La Patria chiama e, con altri suoi amici, lascia i propri cari e il lavoro per partire verso la destinazione stabilita.

Vive le vicissitudini dell’esercito italiano sul fronte greco. Per tutto l’inverno ’40-’41 gli eserciti italiano e greco avevano mantenuto sostanzialmente le posizioni, quasi come una guerra di trincea, con alcuni sfondamenti del fronte da parte dei Greci. La guerra si era manifestata più difficile delle aspettative. Nella primavera l’esercito italiano riprende l’offensiva e inizia a respingere l’esercito greco, che ora deve affrontare contemporaneamente l’esercito italiano e quello tedesco, che nel frattempo dalla Iugoslavia era entrato nella Macedonia. Attaccata su due fronti, la Grecia è costretta a chiedere l’armistizio e la resa. L’Italia occupò tutta la Grecia continentale e le isole Corfù, Zante e Cefalonia. 


La guerra sulle montagne greche è stata logorante, i soldati hanno sofferto, il freddo e la fame, e visto molti commilitoni morti e feriti. Ora il peso della guerra per Francesco e gli altri diventa meno gravoso, l’esercito, disseminato in innumerevoli e statici presidi,  controllava la conquista ed era pronta a difenderla da eventuali attacchi inglesi. Francesco, a Natale del 42, ha la possibilità di raggiungere Atene.

Sui fronti russo e nel nord Africa infuria la guerra degli Alleati contro L’Italia e la Germania. Dall’Africa gli anglo–americani passano in Sicilia travolgendo l’esercito italiano. L’ 8 settembre 1943 Badoglio firma l’armistizio.

L’Italia non è più in guerra, ma tra tedeschi e italiani si apre una gravissima ostilità. I tedeschi che vogliono difendere le conquiste fatte, vedono nei soldati italiani dei vili traditori.

In Italia le vicende si evolveranno diversamente, ma nelle isole e nei Balcani la condizione dei soldati si rivelò difficilissima. Senza ordini precisi erano sbandati: alcuni trovarono rifugio presso alcune famiglie greche, altri si arruolarono nei gruppi di resistenza, altri furono fatti prigionieri dai vecchi alleati tedeschi. I quali prospettarono loro l’alternativa: o entrare nelle loro file, o essere fatti prigionieri di guerra. Pochi scelsero di collaborare con i tedeschi, la maggior parte furono deportati nei campi di prigionia tedeschi. Francesco fu condotto in Germania.

Qui gli italiani non furono considerati prigionieri di guerre, per cui non potettero usufruire delle garanzie spettanti ai prigionieri secondo gli accordi internazionali, ma furono dichiarati “internati” e in seguito “lavoratori civili” in modo tale che i tedeschi non solo non offrissero loro le garanzie spettanti ai prigionieri, ma potevano sfruttarli nei lavori pesanti o di ricostruzione in seguito ai bombardamenti.

Le condizioni in questi campi (lager) erano terribili: non c’erano servizi igienici, non avevano vestiti adatti alle temperature rigide della Germania, il cibo era scarsissimo, tanto che, ricordava Francesco, quando dalla cucina buttavano bucce di patate o residui di verdure i prigionieri si affrettavano a raccoglierli, qualcuno mangiava anche dei topi. Molti morirono, altri furono affetti da gravi malattie polmonari o intestinali.

Francesco riuscì a sopravvivere e a uscire da quell’inferno, quando il ’45 la Germania fu sconfitta dagli alleati. Con altri attraversò le Alpi, quindi accolto da un punto di raccolta in Italia, fu avviato a Ruvo di Puglia con il treno.

La famiglia, che da tempo non aveva sue notizie, era in stato di angoscia e trepidazione: il padre e gli altri fratelli chiedevano ai militari che rientravano, se avessero notizie di Francesco. Finalmente si accese in loro la speranza di rivederlo, un rivenditore di sali e tabacchi, avendo sentito per radio il nome Francesco Campanale, corse ad annunciarlo ai suoi.

Dopo alcuni giorni, sfinito, molto dimagrito, ma sano e salvo giunse alla stazione ferroviaria dove l’attendevano il padre, i fratelli e tanti compaesani che speravano di avere qualche notizie dei loro figli ancora lontani.


mercoledì 10 luglio 2013

Ricordi della Prima Guerra Mondiale


Zio Giacomo e zia Margherita, ormai ultra ottantenni trascorrevano l’ultima fase della loro vita, in una piccola casa, che non aveva neppure un balcone che si affacciava sulla strada. Preferivano trascorrere gran parte del tempo in terrazza, dove avevano un locale, adibito a cucina.

Avendo trascorso gran parte della vita in campagna, ora preferivano vivere ancora all’aria aperta, ascoltando il cinguettio dei passeri e in primavera lo stridio delle rondini. Quando si ritiravano gli ultimi raggi di sole, scendevano nel piccolo appartamento per seguire i programmi televisivi, finché non si assopivano; era l’ora di andare a letto.

Mario andava spesso a fare visita ai vecchi zii con i quali si tratteneva dialogando per qualche tempo. “Buon giorno zii, come state?” al saluto del nipote lo zio rispondeva sornione: “Cristo (Dio) si è dimenticato di noi” oppure “Cristo non ha più posto, vedi quante disgrazie, quanti morti ci sono ogni giorno” si riferiva agli incidenti, alle guerre, di cui aveva notizie dalla televisione. Zia Margherita subito interveniva precisando in dialetto: “Carne triste (cattiva) non la vuole Cristo” per significare che forse non erano ancora buoni e pronti per essere accolti da Cristo.

Si discuteva delle esperienze di vita e immancabilmente il discorso cadeva sui fatti di guerra: “quanti morti, che stragi inutili” la vita dei sodati non aveva alcun valore, la guerra era una carneficina. Tra gli altri eventi ricordava quando, nel 1916, gli austriaci usarono i gas asfissianti mentre loro erano in trincea sul San Michele: con tanta tristezza ricordava i tanti commilitoni colpiti dai gas, e la visione del campo di morte di tante giovani vite. Pochi riuscirono fortunosamente a salvarsi, il soldato Giacomo e pochi altri avvolti nei mantelli, rifugiatisi negli anfratti che il monte offriva, riuscirono a sopravvivere. Quando i primi incominciarono a scoprirsi videro arrivare gli austriaci, allertarono i pochi sopravvissuti; i comandanti, vedendo che i vapori di morte erano spinti verso la valle, cercarono di organizzare la difesa. Gli austriaci continuavano ad avanzare sì, ma per le mutate direzioni dei venti erano colpiti anche loro dai gas, che sebbene avessero perso l’efficacia mortale, riuscivano a stordire chi ne era colpito. Pertanto i pochi soldati italiani, appena si trovarono di fronte agli austriaci riuscirono a disarmarli, a farli prigionieri, quindi li affidarono alle retrovie italiane.

“Eventi tristi! - commentava zio Giacomo - che non avvengano mai più!”.

Il sole si nascondeva dietro l’orizzonte, gli zii si apprestavano a scendere giù nel loro piccolo appartamentino, Mario saluta: “Ciao, arrivederci!”

giovedì 4 luglio 2013

Il Soldato Giulio Campanale


 
Nel maggio del 1917 erano trascorsi due anni dall’entrata in guerra dell’Italia, alleata con i Francesi, gli Inglesi e i Russi contro l’Austria e la Germania.

Ruvo era lontana ottocento chilometri dal fronte, per molti contadini e piccoli agricoltori i territori del fronte di guerra erano misteriosi, per loro che vivevano sulle dolci alture della Murgia, sentire parlare di fiumi, valli, monti era come sognare un mondo di fiabe.

Erano lontani dai rombi dei cannoni, né assistevano ai massacri, che coinvolsero le inermi popolazioni del Nord-Est italiano.

Anche Ruvo, pur essendo lontana, sosteneva il peso della guerra. I giovani erano partiti, arruolati nell’esercito; pur attenuando le faticose condizioni in cui versavano sul fronte, per attenuare le sofferenze dei genitori, descrivevano, quando riuscivano a scrivere, perché molti erano analfabeti, quegli impervi luoghi.

I contadini, al tramonto uscivano per andare in piazza a cercare il lavoro dell’indomani. I piccoli proprietari, erano incerti se assumerli, perché i prodotti venivano requisiti dallo Stato, che in questa emergenza nazionale doveva garantire a tutti il cibo necessario per la sopravvivenza.

Molti piccoli proprietari erano senza animali, fondamentali per il trasposto e le arature dei campi, perché cavalli, muli, asini erano stati requisiti dall’esercito per le salmerie dei soldati.

Tuttavia, anche se con salari ridotti, i braccianti decidevano di prestare la loro opera, sui campi avrebbero recuperato, oltre quel misero salario, un po’ di erba commestibile, che con un po’ di pane o con un po’ di legumi avrebbero sostenuto in qualche modo la propria famiglia.

Della guerra nessuno osava parlare, ma tutti avevano le orecchie attente, appena qualcuno accennava a qualche notizia che trapelava dal fronte.

Non leggevano i giornali, né ascoltavano la radio ma le poche notizie che pervenivano correvano di bocca in bocca.

I piccoli gruppetti si aggregavano tra loro quando pervenivano dal fronte le tristi notizie di morte di alcuni giovani e di gravi amputazioni di altri. Al breve vocio, seguiva un grave silenzio. Tanti aveva al fronte un figlio, un fratello, un parente, un amico; gli sguardi si incrociavano e poi si abbassavano, nessuno osava commentare gli eventi.

Molti incominciavano a ribellarsi, quando pervennero alcune notizie delle decimazioni sul fronte; ora si esasperavano gli animi, erano stati strappati loro i propri figli per la Patria, invece…

Saverio e i tre figli si erano recati a coltivare i propri campi. Dopo un lunga e dura giornata di lavoro, tornano a casa dove la moglie prepara come al solito la tavola, cercando di nascondere un grande dolore, non vuole turbare il pranzo del marito e del figli. Ma Saverio che aveva accolto alcune notizie, le chiese “è arrivata la cartolina?” Maria, così si chiamava la moglie, scoppia in lacrime e accenna il sì.

Sul fronte si aveva urgente bisogno di uomini e il comando militare decise di anticipare l’arruolamento delle nuove leve, coinvolgendo anche i giovani ancora diciasettenni, Giulio, il più grande dei tre figli maschi di Saverio era tra questi.

Il giorno stabilito Saverio accompagna il figlio Giulio alla stazione, lascia a casa gli altri due figli e alcuni parenti per sostenere la moglie straziata per i pericoli a cui andava incontro suo figlio. Nel tragitto incontrano altri coetanei di Giulio che percorrono la stessa strada. Ad un tratto incontrano uno zio che andava col il carro a lavoro, questi scorgendoli si ferma, li fa salire sul carro e li porta fino alla stazione.

I giovani pur consapevoli dei pericoli a cui andavano incontro, mostravano coraggio nascondendo con un sorriso il loro stato d’animo.

Puntualmente vedono del fumo tra gli ulivi, era la locomotiva a vapore. Arrivata in stazione, con grande stridio dei freni e fragore delle catene che tenevano uniti i vagoni, i ragazzi salutano tutti i presenti, salgono sulle carrozze di legno. Il treno sbuffa una nuvola di fumo nero, fischia e riprende la sua corsa per raccogliere altre giovani vite dai paesi circostanti.

Raggiunto le caserme, di destinazione i giovani ricevono le divise da soldati, vengono addestrati ed equipaggiati di armi.

Il 2 ottobre 1917, l’esercito subisce la disfatta di Caporetto. L’8 novembre il generale Cadorna viene sostituito dal generale Diaz.

I soldati, appena diciottenni, vengono avviati al fronte. Diaz riesce a riorganizzare e a risollevare l’esercito, rinvigorito dalle giovanissime leve;  ferma gli austriaci e riprende le posizioni perdute.

I ragazzi del ’99 condividono con i commilitoni gli atti di eroismo e i sacrifici della guerra di trincea, per lunghi periodi dovevano sostare nelle trincea ad attendere le occasioni propizie per l’assalto, intanto dovevano vigilare e ripararsi dagli attacchi del nemico.

Molte volte i rifornimenti di armi e viveri tardavano, i sentieri delle alture del Grappa non permettevano delle facili comunicazioni, le carovane degli asini lentamente salivano per i sentieri del monte, quando non erano esposte al tiro della artiglieria nemica. Pertanto i soldati, quando negli spostamenti trovavano verdure o patate, spesso le raccoglievano e pulitele, sfregandole tra le mani, le mangiavano crude.

Al fante Giulio Campanale gli era stato affidato l’arduo compito di distribuire la posta ai soldati in trincea, per cui spesso doveva attraversare spazi non protetti. Un giorno uscito allo scoperto per passare da una trincea ad un’altra viene raggiunto da una granata. Caduto a terra viene coperto da un cumulo di terra, alcuni commilitoni riescono a raggiungerlo e a portarlo in salvo, recuperando anche la posta che portava con sé.

Giulio, ricordava che il giorno dell’Epifania del ’18, erano passati alcuni giorni senza rancio, si nutrivano solo di duri galletti; quando finalmente arrivò la compagnia con i viveri, distribuì del riso, che si era congelato e non potevano versarlo nelle gavette, pertanto cercarono di ridurlo a pezzi e tutti, affamati com’erano, si affrettarono a mangiarlo.

La notte la trascorrevano nelle trincee a turno tra la veglia e il riposo, avvolti nei pastrani, che non sempre erano sufficienti a riparali dal gelo notturno alla quota a cui si trovavano.

Una notte dell’inverno del 18, Giulio si svegliò con i piedi congelati, pertanto non potendo offrire più la sua opera, fu accompagnato nelle retrovie all’ospedale. Recuperato la mobilità degli arti, fu adibito a ruoli di soccorso e di retrovia.

Intanto erano intervenuti nella guerra anche gli USA a fianco dell’Inghilterra, della Francia e dell’Italia.

Diaz nel 3-4 novembre conseguì la vittoria di Vittorio Veneto, che segnò la fine della belligeranza sul fronte italiano.

La guerra è finita, Giulio e tanti commilitoni possono tornare a casa, ma solo il 24 febbraio 1921 avrà il concedo in cui si attesta la buona condotta e di aver servito la patria con fedeltà e onore.

Giulio ritorna alla propria famiglia felice di aver superato la prova della guerra, ma segnato dalle atroci esperienze vissute sul fronte.

I contadini continuavano a riunirsi in piazza a ricordare i morti sul fronte e a sperare un lavoro per l’indomani.