domenica 30 dicembre 2007

La conoscenza tecnico-scientifica

Gli uomini nel lungo percorso della storia hanno cercato di soddisfare le loro necessità applicando le conoscenze che andavano accumulando e le abilità che perfezionavano con l’esercizio. Hanno imparato a difendersi dagli altri animali, a ripararsi nel caso di eventi atmosferici sfavorevoli, a migliorare le proprie condizioni di vita. In tal modo lentamente, lungo il percorso della storia, hanno arricchito l’umanità di conoscenze tecniche e di invenzioni che non solo hanno permesso la loro sopravvivenza, ma li hanno trasformati.
Tra il 1500 e il 1600, coordinando il sapere accumulato dalle precedenti generazioni e spinti da nuove esigenze che la società dell’epoca imponeva, l’evoluzione tecnica ebbe un’accelerazione. Si ritenne che la conoscenza dovesse servire al benessere dell’esistenza umana, perciò la conoscenza tecnica che fino ad allora era considerata un’attività servile, incomincia ad assumere una grande dignità tanto da opporsi alla filosofia del tempo.
Galilei, Bacone incominciano a sostenere l’autonomia e i caratteri della scienza e ne fissano il metodo. Da questo momento la scienza e la tecnica si sviluppano con un ritmo sempre più sostenuto, penetrando in ogni settore della vita, apportando costanti e notevoli contributi alla conoscenza umana e offrendo all’umanità mezzi sempre più potenti per migliorare le proprie condizioni di vita, anche se spesso questi strumenti sono stati anche causa di distruzione e di morte.
Lo sviluppo non è apparso sempre positivo, perché i tecnici e spesso anche gli scienziati, preoccupati a difendere i particolari ambiti del loro sapere, non si sono resi conto dei danni e degli squilibri naturali che andavano a creare, soprattutto quando erano spinti dagli interessi economici che le loro scoperte suscitavano. Dopo lungo tempo, quando si rendevano conto che le loro attività, invece che indurre dei vantaggi all’umanità, erano causa di morte, applicando le loro ricerche sono riesciti in parte a riparare i guasti prodotti, forse spingendo un passo avanti il progresso generale.
Oggi, la scienza e la tecnica controllano mezzi potentissimi, che applicano oltre che alla produzione di beni quotidiani, anche all’esplorazione dell’universo, e alla manipolazione del DNA, e degli embrioni umani.
Destano meraviglia il percorso e le potenzialità della scienza e della tecnica, e suscitano un senso di orgoglio per le capacità del genere umano, ma pongono, con grande preoccupazione, alcune domande; gli scienziati si accorgeranno in tempo utile dei potenziali errori e saranno capaci di non rompere l’armonia della vita? Questi meravigliosi successi della scienza, impongono all’umanità un’ulteriore grande responsabilità di decisione sulla vita e sulla morte.


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martedì 4 dicembre 2007

Ogni volta

Ogni volta che Mario entra nel suo paese, Ruvo di Puglia, da via S. Barbara il suo sguardo corre verso il secondo balcone della prima costruzione in pietra che si incontra sulla sinistra. E la mente corre a richiamare immagini sbiadite dal tempo ma radicate come i primi fili del groviglio della memoria.
C’è sempre sul quel balcone un bambino con i pantaloncini, sorretto da due esili e traballanti gambine, legato con le manine ai ferri della ringhiera che guarda i passanti e cerca di familiarizzare con le immagini amiche.
Cinguettano gli uccelli, abbaia il cane, miagola il gattino, ecco la capretta, passa l’asinello che fatica sotto la soma. Quanti carri trainati da cavalli o da muli passano sotto il balcone, è una via di grande traffico nelle ore del rientro dei contadini dalle campagne.
Papà, papà! Mamma, sta arrivando papà! Il bambino ha visto da lontano il carro che riporta a casa il papà che torna dalla campagna. Ma il papà ritarda a rientrare e il bambino freme.
Il papà ha dirottato la mula che traina il carro verso il “pilone”, la fontana abbeveratoio non lontano da casa, per farla dissetare e anche per fare provvista di acqua per la casa, all’epoca solo le case di alcuni signori potevano disporre di fontane, tutti gli altri dovevano attingerla dai pozzi o dovevano trasportarla, riempiendo le “quartare”(delle giare di terracotta) o i secchi di legno o di stagno dalle fontane pubbliche. Finalmente il papà rientra e il bambino gli corre tra le braccia, il papà è stanco ma i suoi occhi brillano e sorridendo solleva il bambino come un piuma con le sue mani incallite e ruvide per il duro lavoro.

lunedì 19 novembre 2007

La conoscenza: uno strumento per la sopravvivenza

Se nella “Genesi” la conoscenza è data sì da Dio, ma è l’uomo che sin dall’inizio si assume la responsabilità delle sue conseguenze, infatti mangia dell’albero della “conoscenza del Bene e del Male” contravvenendo all’ordine di Dio, nel mondo antico della Grecia la conoscenza è un dono, non del tutto spontaneo, degli dei.
Platone nel dialogo “Protagora” narra l’origine dell’uomo. Gli uomini, come tutti gli altri animali, vengono plasmati con la terra e con il fuoco dagli dei, quindi viene affidato a Epimeteo e a Prometeo la distribuzione delle facoltà naturali in modo che ciascuno possa sostenersi e difendersi, ma lo sbadato Epimeteo dette tutte le facoltà agli animali, lasciando nudo l’uomo. “Prometeo allora, trovandosi appunto in grande imbaraz­zo per la salvezza dell'uomo, ruba a Efesto e ad Atena il sapere tecnico, insieme con il fuoco e ne fece dono all'uomo. L'uo­mo, dunque, ebbe in tal modo la scienza della vita” (Platone, Protagora).
L’uomo, avendo acquisito il sapere tecnico, proprio delle divinità greche, per poter provvedere alle sue esigenze di vita, si distacca ulteriormente dagli altri animali e si avvicina alla natura divina. In qualche modo l’uomo è diventato responsabile di sé stesso, in quanto deve provvedere, diversamente dagli altri esseri viventi, a procurarsi i mezzi per sostenersi e per difendersi dalle intemperie e dalla minaccia degli altri animali.
Ma la conoscenza non può ridursi solo al sapere tecnico, essa serve soprattutto per la vita ‘politica’, infatti ogni uomo, non potendo svolgere tutte le mansioni sociali, ha bisogno della solidarietà degli altri. Per raggiungere tale finalità l’uomo deve superare il proprio egoismo (il proprio isolamento) e stabilire le norme di una convivenza pacifica e solidale.
È detto ancora nel ‘Protagora’ che gli uomini, vivendo sparsi e non riuscendo a vivere in società, erano ancora deboli nei confronti degli animali feroci. “Allora Zeus, temendo per la nostra specie, minacciata di andar tutta distrutta, inviò Ermes per­ché portasse agli uomini il pudore e la giustizia affinché servissero da ordinamento della città e da vincoli costituenti unità di amicizia(Platone, Protagora).
La conoscenza sia nel testo biblico che nel pensiero greco qualifica l’uomo, lo distingue dagli altri esseri viventi e lo avvicina alla divinità, tuttavia sembra in ambedue i contesti che la conoscenza sia un qualcosa in più offerto all’uomo, aggiunta al suo stato primitivo e serve appunto a sostenere, a moderare, e a difendere in qualche modo la prima funzione immediata e istintiva a lui attribuita.
La conoscenza razionale, come già detto, permette all’uomo di scoprire nuovi strumenti per sostenere e migliorare le condizioni umane sia nel sapere tecnico-scientifico sia nelle relazioni socio-politiche, ma questo sapere non riesce sempre a controllare gli istinti, pertanto spesso emergono dei comportamenti impulsivi, a volte violenti; né riesce a cogliere in una visione globale i vari aspetti della vita, di conseguenza, pur migliorando in molti aspetti la vita umana, spesso deforma il naturale evolvere degli esseri e degli eventi.


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mercoledì 7 novembre 2007

La conoscenza: il frutto dell’albero proibito

Nel primo libro della Bibbia “La Genesi”, dopo la narrazione della creazione dell’universo, delle piante e degli animali, si parla della speciale creazione dell’uomo. “Poi Iddio disse: ‘facciamo l’uomo a nostra immagine’…”(Gen. 1.26)
Pur avendo creato l’uomo a sua immagine, Dio ha voluto che l’uomo esercitasse le sue facoltà, assumendosi le responsabilità della propria vita, pertanto gli ha offerto la conoscenza come un’ulteriore opportunità.
Ovvero aveva dato agli uomini come a tutti gli altri esseri viventi i mezzi per vivere, gli aveva dato una superiorità e la padronanza sugli altri, “e il Signore Iddio fece germogliare dal suolo ogni specie di alberi piacevoli di aspetto e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino, e l’albero della conoscenza del bene e del male”. (Gen. 2.9)
Tuttavia aveva proibito di mangiare dell’albero della conoscenza, mangiando di quest’albero l’uomo avrebbe perso l’innocenza e in questo modo si sarebbe fatto carico delle conseguenze delle sue scelte. L’uomo ha osato mangiare dell’albero proibito, ma appena mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male, l’uomo prova il primo senso del pudore scoprendosi nudo, e quindi sente il peso della vita.
La conoscenza è una facoltà dell’uomo che lo distingue dagli altri esseri, o come disse il serpente “qualora ne mangiaste si aprirebbero gli occhi vostri e diventereste come Dio”(Gen. 3.5), difatti oltre a rendere consapevole l’uomo delle sue azioni, lo rende libero, in quanto tramite questa riesce a distinguere il bene dal male. Tale consapevolezza fa superare lo stato di innocenza e rende l’uomo responsabile delle proprie azioni, e ad ogni incremento della conoscenza ne consegue un ulteriore grado di responsabilità. Non tutti vogliono osare utilizzare a pieno la conoscenza e spesso ricorrono a miti, a modelli, ad abitudini tramandate rifiutando di affrontare il rischio del sapere. Ma l’uomo da quando ha cominciato a conoscere non può arrestarsi, senza venir meno allo statuto fondamentale della sua natura, anche se spesso emerge il rimpianto di uno stato primitivo di innocenza o la paura di non riuscire a dominare gli esiti delle conoscenze acquisite.

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sabato 13 ottobre 2007

La filosofia

La parola filosofia ha in sé un significato generico, ovvero “amante della sapienza”, e come tale è un’attività propria di ciascun uomo, anche se non tutti, come già erano consapevoli gli antichi, la esercitano coerentemente. Infatti ci sono gli arroganti che ritengono di possedere ogni conoscenza, ci sono coloro che avviliti da condizioni disumane non hanno il tempo di dedicasi ad essa.
Tra i tanti attributi che si possono dare alla filosofia si può ritenere, seguendo la tradizione greca, che tre di questi siano sufficienti per qualificarla: teoretica, razionale e critica.

La filosofia è scienza teoretica ovvero l’uomo che è colto dalla meraviglia di fronte all’osservazione dei fenomeni del mondo circostante è scosso dal torpore della vita quotidiana e si sofferma ad ammirare tali fenomeni, quindi si chiede cosa sono, come e perché avvengono. Oppure quando non è distratto da attività pratiche o da interventi comunicativi esterni, riflettendo scopre se stesso e si domanda chi è, perché esiste ovvero qual è il senso della vita.

Da questo momento si sprigiona nell’uomo coinvolto dalla filosofia un processo di attività razionale; chiedendosi il perché e il come dei fenomeni che hanno suscitato la sua attenzione vuole trovare una giustificazione o un ordine in modo tale che gli stessi siano in qualche modo dominati da lui, ovvero non gli siano estranei, anzi siano a lui utili.

In tal modo la filosofia è critica perché non accetta i dati immediati della propria esperienza, né i valori tradizionali della propria comunità. Si apre in tal modo una situazione conflittuale tra individui, strati sociali, associazioni, perché pur aperti alla ricerca della verità, ognuno è legato ai propri pregiudizi se non chiaramente ai propri interessi. Tale conflitto segna appunto il dibattito filosofico e i vari eventi storici.

sabato 6 ottobre 2007

Un punto di vista

In Lombardia, soprattutto nei piccoli centri sviluppatisi nelle vicinanze delle aziende industriali, l’automazione sempre più estesa delle macchine, la riorganizzazione delle industrie, la delocalizzazione o la cessazione dell'attività delle stesse suscitano una grave preoccupazione per l’occupazione tra gli abitanti, anche se lo sviluppo del terziario avanzato nelle grandi città riesce ad assorbire gran parte della manodopera in esubero nelle industrie.
Ciò determina una riconsiderazione dell’occupazione: mentre prima i giovani entravano facilmente nelle industrie, oggi incontrano maggiori difficoltà; inoltre la nuova generazione, che ha conseguito una scolarizzazione superiore, cerca un’occupazione nell’amministrazione pubblica e nei servizi, occupazione che spesso era snobbata dai padri, anche per una remunerazione inferiore di quella che potevano guadagnare nell’industria.
I giovani inoltre devono dividere i vari posti nei servizi pubblici con i meridionali, che, a loro volta, non trovando lavoro, con sacrifici propri e dei propri familiari si erano dedicati da tempo agli studi e purtroppo sono dovuti emigrare affrontando ulteriori gravi sacrifici economici ed affettivi. Oggi alla cronica emigrazione dal Sud Italia si unisce l’emigrazione dai paesi comunitari e extracomunitari aggravando la situazione.In questa circostanza di gravi mutamenti socio-economici in atto da tempo si alimenta la Lega Nord, che invece di affrontare con realismo e razionalità i problemi delle trasformazioni economiche mondiali, sostiene e alimenta l’emotività che da tali circostanze emergono, mitizzando alcuni eventi storici o creandone di nuovi. La Lombardia che per decenni ha sostenuto il capitalismo e l’economia di mercato internazionale per espandere la propria industria, oggi viene tentata dalla Lega ad arroccarsi e a difendere il proprio vantaggio, i cittadini e gli imprenditori della Lombardia sapranno fare le giuste scelte politiche per limitare e annullare tale movimento. L’emotività, la paura, la mitizzazione hanno in passato creato enormi guai all’Italia.

giovedì 20 settembre 2007

Un amico operaio

Mario, messo su famiglia, si stabilisce a Cavaria con Premezzo (VA).
La sua casa, posta al terzo piano forse dell’unico condominio di una certa rilevanza del paese, dominava la valle del torrente Arno.
Dal balcone si vedevano i campanili delle chiese e le case immerse dal verde di Oggiona e Santo Stefano. La posizione dominante offriva la visione di spettacolari panorami cangianti secondo le stagioni.

Questi luoghi sono rinomati per le bilance e i bilici, prodotti dalle diverse aziende diffuse nella zona.
Mario aveva urgente bisogno di una signora che assistesse la sua piccola figliola, mentre lui e la moglie erano al lavoro, cerca e conosce una gentile signora che si assume questa incombenza. Frequentando la dimora della signora entra in relazione col resto della sua famiglia, in modo particolare col marito con il quale stabilisce un cordiale rapporto di stima.

Scambiando le proprie esperienze di lavoro, la discussione cade sull’opportunità di lavoro che il territorio offriva. Nando, un operaio di un’industria di minuterie di Cavaria, ricordava, con una certa malinconia, che la propria azienda, quando lui era più giovane, occupava alcune migliaia di operai, tra uomini e donne, ma col tempo, in seguito all’automazione di alcune mansioni, oltre che per l’evoluzione delle bilance da meccaniche ad elettroniche, il numero degli operai si era tanto ridotto che la propria azienda non occupava più di trecento tra operai e tecnici. E dimostrava la sua preoccupazione per l’occupazione della futura generazione, infatti le aziende industriali, che avevano richiamato tanti operai dalle varie parti di Italia, ora a fatica potevano soddisfare le richieste dei residenti, e tanti giovani si trasferivano nei centri maggiori per trovare lavoro.

sabato 8 settembre 2007

Un amico industriale

Frequentando, anche se raramente, un bar, Mario conobbe un signore, che parlava con entusiasmo della nuova esperienza di lavoro: era stato un operaio ed ora tentava di mettersi in proprio. Con alcuni risparmi e con qualche sacrificio aveva messo su una casa con un piccolo giardino. I locali a piano terra, opportunamente trasformati, sarebbero diventati un’officina, mentre la famiglia avrebbe occupato il piano superiore. L’azienda in cui aveva lavorato finora gli aveva offerto una somma sufficiente per acquistare le macchine e gli arnesi necessari, inoltre gli garantiva il mercato, in quanto avrebbe acquistato i prodotti della sua impresa.
Invitato da Maurizio, questo era il nome del neo imprenditore, a recarsi alla fiera di Milano dove erano esposte le macchine utensili, Mario non lasciò cadere l’invito per curiosare in un mondo a lui poco noto.
Mentre Maurizio trattava con i rappresentanti della ditta da cui aveva acquistato una fresa e un tornio, Mario curiosava tra le altre macchine. Attirarono la sua attenzione le macchine che presentavano un’alta tecnologia e un forte automatismo: una macchina di imbuti in alluminio che, prelevando dei cubetti di metallo, li trasformava in perfetti imbuti, senza alcun intervento dell’uomo; altre macchine dentro una cupola trasparente potevano disporre di 10-20 attrezzi che lavoravano dei blocchi d’acciaio per farne degli elementi di altre macchine; un robot che, utilizzando un sottilissimo cavo elettrico riusciva a forgiare un blocco di acciaio di circa 20 cm in figurine, e tante altre ingegnosità, che rimarranno impresse nella sua mente e che utilizzerà in momenti opportuni. Liberatosi dalle dovute relazioni economiche, i due visitarono altri stand della fiera e ritornarono al paese.
Un altro giorno Maurizio presentò la sua officina a Mario, che non essendo esperto di meccanica restò meravigliato delle potenzialità di tale officina e delle abilità tecniche del nuovo amico.
Intanto affioravano alla mente di Mario delle domande: perché Maurizio intendeva mettersi in proprio, se i suoi prodotti poteva venderli solo all’azienda da cui dipendeva prima? Perché l’azienda offriva dei capitali ad un operaio affinché questi lavorasse dei prodotti che solo lei poteva piazzare sul mercato internazionale?

mercoledì 8 agosto 2007

L’elicottero

Mario finalmente aveva travato una sistemazione, anche se precaria, in Origgio, aveva acquistato una 500L di occasione, e ogni tanto passava da un’officina che si trovava in Muschiona , piccola frazione di Origgio, tra Mario e il titolare dell’officina incominciò a stabilirsi una relazione di fiducia e durante il lavoro si chiacchierava di vari eventi. Un giorno, in una breve pausa di lavoro, si stava sulla soglia dell’officina, videro un elicottero che sorvolava le manifatture e poi decollò. Mario non esperto del territorio, chiese spiegazioni a Claudio, e questi con un sospiro malinconico disse, anche le manifatture chiuderanno, quel elicottero trasporta gli “americani” che acquisteranno le manifatture e poi le chiuderanno. E continuò a raccontare delle manifatture che avevano offerto lavoro a tanti lavoratori, richiamandoli ad Origgio da diverse parti d’Italia. Mario confermò, difatti era venuto a conoscenza del lavoro delle manifatture da altri conoscenti e da alcuni dei suoi cugini che, dopo la prima occupazione nelle aziende agricole, avevano trovato lavoro proprio in queste. Ancora una volta sta cambiando la fisionomia economica e sociale del paese.

I primi alunni in Lombardia

Erano i primi giorni di ottobre e Mario sul terrazzo della casa paterna, in Puglia, al sole ottobrino, pigiava dei grappoli di uva per preparare alcune bottiglie di spumante per il prossimo natale, quando è chiamato da sua madre perché gli era pervenuta una telefonata da Busto Arsizio, era una convocazione per una supplenza temporanea presso l’I.T.C.. Valutò l’opportunità che gli si offriva: era un lavoro precario, tuttavia gli offriva la possibilità di fare una nuova esperienza, e accettò l’offerta. La madre gli preparò le valigie, poteva disporre di una momentanea ospitalità presso dei suoi cugini, e la sera stessa partì.
Doveva supplire un insegnante assente per salute. Aveva appena preso contatto con le due classi quando è convocato dalla presidenza dell’ITIS sempre di Busto Arsizio per una nomina annuale, nomina che gli permette di rinunziare alla precedente e quindi prende servizio presso questo istituto.
Qui incontra i “primi” alunni della Lombardia.
Gli erano state affidate tre classi del corso serale di tessili e maglieri e una classe quinta di chimici. Gli alunni che frequentavano erano tutti di età superiore ai 18 anni e alcuni erano già sposati con figli. Quasi tutti lavoravono durante la giornata e dalle 17 alle 22 frequentavano le lezioni. Con questi alunni si studiava la letteratura italiana e la storia, ma si discuteva delle loro esperienze di lavoro e di problemi di economia locale. Mario intuiva dalle varie discussione un certo senso di orgoglio per le capacità tecniche delle aziende diffuse nel territorio e della laboriosità degli operai, ma nello stesso tempo un certa tristezza perché varie aziende stavano delocalizzando la propria produzione a favore di altri Paesi. Di fatto le aziende venivano acquistate da multinazionali, che acquisivano il marchio, conseguito nel tempo dalle maestranze locali e trasferivano la produzione altrove. Tuttavia gli alunni dicevano: “alle nostre aziende rimane la specializzazione del “finissaggio”.
Mario ricorda ancora con ammirazione e stima molti di questi alunni che dopo la giornata di lavoro si applicavano con grande senso di responsabilità e serietà allo studio, e li vorrebbe ringraziare per la semplicità dei comportamenti e per la stima reciproca subito stabilita. Con questi signori potette scambiare esperienze di vita ed ebbe da loro alcuni consigli di comportamento di guida nelle varie circostanze in modo particolare in presenza di nebbia. Incominciò a conoscere il territorio circostante. Un caso particolare: Mario stava illustrando la pagina dei Promessi sposi del Manzoni dove viene descritto il monte Resegone, e come al solito stava ricostruendo con esempi questi ambienti e stava tentando di pronunciare il nome in lombardo, quando un alunno invita il professore a guardare dalla finestra i monti che si offrivano in uno stupendo quadro e che stava ammirando da tempo senza riconoscere il monte da lui tante volte descritto.

lunedì 9 luglio 2007

“La lepre dove nasce, pasce”

È un detto del popolo contadino per indicare l’attaccamento alla propria terra e una larvata critica a chi se ne allontana. Tanti vivono con un forte legame al proprio lavoro, al proprio ambiente, ai propri amici, ai propri familiari, e tra questi si stabilisce un rapporto quasi naturale e staccarsi da questi sembra loro un grande sacrificio.
Altri vivono questi rapporti in modo conflittuale e ritengono opportuno allontanarsi per ricreare un nuovo mondo a loro più congeniale.
Altri per spirito di avventura o per semplice curiosità desiderano evadere per nuove esperienze.
Molti purtroppo si devono allontanare dal proprio territorio per necessità, per poter sopravvivere, per lavoro. Di questi, di solito, si occupa la storia e la cronaca.
In questo blog ho ricordato alcuni eventi vissuti, vedi La rondine, Ruvesi ad Origgio, La grandine, E toccò anche a Mario, per sottolineare che spesso l’emigrazione è condizionata da esigenze di lavoro tecnico o intellettuale, o da gravi calamità naturali che costringono tanti a cercare altrove un po’ di fortuna.
La cronaca dei nostri giorni ci narra di disperati che affrontano tanti sacrifici e il rischio della propria vita, pur di uscire dalle proprie misere condizioni di vita.
È una necessità ineluttabile tale emigrazione, fa parte delle leggi di natura che anche gli uomini, in questo mondo instabile, debbano muoversi?
Quali sono le responsabilità sociali, economiche e politiche di tali migrazioni?
Tanti studi di storici, sociologi, economisti e politici hanno cercato di scoprire le cause, individuando varie responsabilità antropiche, ma non si riesce ad intravedere un barlume di soluzione.


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Mario, sostenuto dall’economia dei propri genitori, si era laureato in filosofia, ma dopo alcuni anni non riusciva a trovare un lavoro continuo. Aveva trovato una precaria sistemazione nell’insegnamento di materie letterarie in corsi per lavoratori, si era nel frattempo abilitato per l’insegnamento di storia e scienze umane, offriva la sua collaborazione presso la propria parrocchia, presso il sindacato, in una associazione culturale e alcune volte nel partito; era un giovane impegnato e profondamente legato al proprio paese.
Per l’insegnamento, a cui aspirava, non intravedeva alcune prospettiva, perchè non si bandivano i concorsi ed erano tanti gli iscritti nelle graduatorie provinciali per tale insegnamento.
Molti suoi amici, emigravano nel Nord Italia dove c’era maggiore richiesta di insegnanti, con la speranza di ottenere in seguito il trasferimento nella propria terra. Si era creato questo circolo vizioso: ricerca di occupazione al nord, trasferimento dopo alcuni anni al Sud.
Mario, non voleva accettare tale realtà, non voleva allontanarsi dal proprio paese, gli sembrava un tradimento delle aspettative dei propri familiari, degli amici e di quanti avevano travato in lui un punto di riferimento e una solidale collaborazione. Tuttavia, non intravedendo alcuna prospettiva per un lavoro più regolare, accettò anche lui di presentare domanda presso il Provveditore agli Studi di Varese. Nell’ottobre fu convocato e cominciò anche per Mario l’esperienza dell’emigrazione.
I primi giorni fu attratto dal verde dei prati e dai colori autunnali dei numerosi viali e dei boschi che si estendevano nell’immediate periferie delle città, dopo calò la nebbia che durò per lunghi giorni e, mentre rimpiangeva il sole ottobrino della Puglia, dovette adattarsi a viaggiare, anche di notte, sulle vie offuscate dalla nebbia.
Ma non era questa nuova esperienza che lo crucciava, anzi lo incuriosiva e lo distoglieva da altri pensieri, quello che più gli costava era la solitudine. Si era stabilito a Origgio, un paesino del varesotto, dove era stato temporaneamente ospitato con grande cordialità da un suo cugino, con il quale nei momenti liberi, visitavano il territorio e i paesi circostanti. Gli mancavano quelle relazioni sociali che aveva nel proprio paese, si sentiva come sradicato ed era preoccupato di non poter più nutrire tutte le relazioni che era riuscito a stabilire intorno a sé. Cercò di sostenere con la corrispondenza alcune amicizie, intanto cominciò a frequentare la biblioteca e alcuni luoghi di aggregazione sociali: chiesa, bar, oratorio.


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martedì 19 giugno 2007

La grandine

Ho visto piangere un uomo,
negli occhi aveva la morte
e il dolore per la perduta speranza.

Di buon ora si levava al mattino,
presto, presto, svegliava i suoi figli,
andiamo ai campi, piantiamo la vigna!

Andarono con potente aratro
solcarono profondo,
piantarono i vitigni e con essi la speranza.

Lunga è l’attesa
e duro il lavoro


Su presto innestiamo!
un altr’anno… e i grappoli d’oro
brilleranno al sole d’agosto.

E la speranza sembrava sorridere all’uomo:
gli innesti attecchirono e furono viti,
un mare di verde e grappoli d’oro.

Ma un giorno mentre si gioiva di speranza
una nuvoletta apparve nel cielo d’agosto,
poi un’altra, un’altra ancora;

Il cielo si oscurò
e fu immenso silenzio.


Goccioloni caddero; si gridò: corri, corri, al riparo!
e subito un improvviso uragono:
pioggia, fulmini, tuoni, pietre dal cielo caddero.

La vigna giacque
a terra tramortita


Ho visto piangere un uomo,
negli occhi aveva la morte
e il dolore per la perduta speranza.




Era mio padre, un uomo d’altri tempi che riusciva a mascherare i propri sentimenti e a nascondere le lacrime, ma quel giorno tornato dai campi, sulla soglia di casa dove era mia madre ad attenderlo, l’abbracciò e tra alcune lacrime mormorò: “ci siamo rivisti”. Poi preoccupato di evitare delle sofferenze ad altri mi invitò ad andare da mio cugino per dissuaderlo dall’andare a vedere i luoghi dove si era scatenato il temporale, con la devastante grandinata.
Una giornata d’agosto con alcune nuvolette, come al solito di buon mattino era andato con i miei fratelli e mio zio, con la seicento di questi, a innestare la vigna in un campo dello zio. Questo campo, derivante da divisione della proprietà del nonno era confinante con quello di mio padre, che l’anno precedente era stato innestato e in quel anno stava producendo il primo raccolto.
Durante la giornata le nuvole si trasformarono in nembi e mentre loro continuavano a lavorare incominciarono a cadere dei goccioloni. Lasciarono il lavoro e si rifugiarono nella seicento. Si scatenò un potente temporale con tanta acqua, e poi con una forte grandinata. Mi raccontava inseguito mio fratello, con gli occhi ancora impauriti, “la grandine era grande come delle pietre!!” “per fortuna che sul portapacchi della seicento c’erano ancora i sarmenti, da cui prelevare le gemme per gli innesti, che attutivano i colpi”, “la seicento l’abbiamo abbandonata lì, era tutta ammaccata”.
Per il temporale i campi erano tutti allagati, e le strade si erano trasformate in torrenti, per vie fortunose riuscirono a raggiungere la strada provinciale, quindi con la collaborazione di amici a tornare a casa.
Mio padre era un uomo forte e molto radicato al suo lavoro e alla sua terra, e come altre volte, anche se meno drammatiche, riprese a risistemare la sua vigna che era stata distrutta, consumando quei pochi risparmi che prudentemente aveva depositato in banca. Ma tanti altri che si trovavano in maggiori ristrettezze economiche e soprattutto i giovani che vedevano distrutte le loro prospettive famigliari, abbandonarono i loro devastati campi e presero la via dell’emigrazione verso il nord Italia o in altri paesi europei.

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L’8 settembre 1943 l’Italia proclama l’armistizio, quindi la fine della belligeranza contro gli Alleati, ma non aveva avuto il tempo, forse anche la possibilità, poiché a fianco degli italiani combattevano i Tedeschi, di definire la riorganizzazione dell’esercito; per cui questo in molti luoghi subì l’aggressione tedesca; molte volte si sciolse disordinatamente: solo parte della marina mantenne una certa unità. In tale circostanza l’esercito nel nord Italia si trovò travolto dagli eventi e molti soldati fuggirono cercando ripari provvisori, o ritornando alle proprie case, o collaborando con le formazioni della Resistenza.
Un soldato Francesco Campanale di Ruvo di Puglia si trovò sbandato, era difficile per lui tornare in famiglia al proprio paese, perché era lontano e non disponeva di mezzi, inoltre ciò era molto rischioso perché avrebbe dovuto attraversare i fronti che man mano si andavano formando in Italia, tra Tedeschi e Alleati.
Decise di chiedere ospitalità presso una famiglia di Lonate Pozzolo e ebbe la fortuna di essere accolto dal capofamiglia e lui si mise a disposizione per accudire ai lavori della fattoria di proprietà del benefattore.
Finita la guerra, mentre nell’Italia meridionale si viveva un periodo di profonda crisi e quindi di disoccupazione, nel Nord Italia la ricostruzione dopo i danni della guerra e la ripresa delle attività produttive (lo sviluppo industriale, precedente la guerra, in Italia era avvenuto nel Triangolo industriale Torino, Genova, Milano) richiedeva sempre più manodopera.
Pertanto il signore di Lonate invitò Francesco, poiché non aveva un lavoro sicuro nel suo paese, a rimanere a lavorare presso la sua fattoria, anche perché nel frattempo si era affermata tra i due un buon rapporto di fiducia e di stima. Francesco decise di restare.
Il lavoro al sud del paese mancava o era precario e comunque mal pagato per cui il giovane Francesco scrivendo alla sua famiglia raccontò le sue condizioni di vita e ricevendo non altrettante notizie positive per il lavoro del fratello Ignazio lo invitò e lo incoraggiò a trasferirsi con la propria famiglia al Nord.
In questo modo si ricompose la famiglia con mogli e figli e la vita riprese con serenità, anche se il loro animo covava il ricordo e il rimpianto del proprio paese; si troverà ogni tanto un momento per ritornare e rivivere i legami, gli affetti della propria giovinezza.
Il fabbisogno di manodopera nell’azienda agricola si faceva sempre più impellente, soprattutto nel periodo primaverile ed estivo, periodo in cui per il clima favorevole è possibile lavorare nei campi; negli altri mesi, per il freddo, il lavoro era ridotto alla manutenzione ordinaria degli allevamenti.
Il proprietario e gestore dell’azienda chiese ai due fratelli di invitare loro conoscenti a formare una squadra di lavoratori per sopperire ai lavori stagionali.
Tra i due fratelli non ci fu subito accordo perché uno di loro temeva di perdere questo sicuro lavoro, e quella serenità che un numeroso gruppo di compaesani avrebbe potuto turbare, tuttavia per la gratitudine verso il loro padrone e benefattore accettarono di invitare conoscenti e amici a formare una squadra per il lavoro stagionale.
Questi operai di Ruvo, si trasferirono ad Origgio ove trovarono degli alloggi provvisori nelle cascine, dopo i circa sei mesi rientrarono al proprio paese con la promessa che sarebbero tornati l’anno successivo.
Puntualmente nella stagione, propizia ai lavori nei campi, ritornarono. Mentre si lavorava in agricoltura, alcuni esaminarono altre possibilità di lavoro nell’edilizia o nelle manifatture esistenti nel territorio. Infatti molti di questi operai trovarono impiego sia nel settore edile sia nelle manifatture di cotone o in altri settori.
Non erano certamente tutti ruvesi i nuovi operai, che arriravno da tante parti d’Italia, tanto che sul posto erano sorte degli istituti di accoglienza di operai e operaie.
Travato il lavoro sicuro e continuativo, molti operai fecero trasferire le proprie famiglie, i giovani tornati al proprio paese convinsero i loro amori a considerare le nuove situazioni e le nuove speranze che si erano create e spesso convinsero le ragazze a partire con loro. In questo modo il piccolo gruppo divenne una comunità che col tempo si è integrata nella comunità cittadina.
Nella mia permanenza ad Origgio non ho ascoltato alcuna critica nei confronti dei miei compaesani, di cui si conosceva la laboriosità e la buona convivenza. Un qualche dissenso ancora permaneva in relazione all’attribuzione dell’edilizia popolare, ma questa era una questione rivolta a tutti gli immigrati e dovuta ad una larvata gelosia dei primi residenti che vantavano dei diritti di privilegio nei loro confronti nell’attribuzione delle stesse.
Ora dissipate queste piccole questioni, l’integrazione sembra compiuta, i giovani, nati ad Origgio da genitori ruvesi a fatica ricordano il dialetto dei propri padri e quando tentano di parlarlo suscitato ilarità nei loro stessi genitori; molti affetti che li tenevano legati alla propria terra, pur forti, si vanno scemando, salvo ad emergere nei momenti dei ricordi e delle nostalgie.


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domenica 20 maggio 2007

La vita è mia

Spesso nella discussione con i giovani e tra i giovani, si sente l’affermazione “la vita è mia” con la conseguente affermazione spesso sottaciuta “e la gestisco io”.
Questa affermazione viene espressa soprattutto quando i giovani vengono richiamati ad una maggiore attenzione nella guida dei ciclomotori o, dopo che hanno conseguito la patente, delle auto, oppure quando sono chiamati ad una maggior senso di responsabilità nella cura della salute o nei comportamenti sociali.
È evidente in questa affermazione l’esaltazione di un individualismo esistenziale, chiuso in se stesso che non tiene conto della complessità dell’esistenza e delle relazioni da cui l’individuo stesso è forgiato.
La conferma dell’inscindibilità dell’individuo dal contesto esistenziale si ha nel caso, non poco frequente ai nostri giorni, di gravi incidenti mortali, purtroppo con la perdita di giovani vite.
I genitori, che hanno messo al mondo queste creature sono disperate e porteranno impresse nei loro cuori questo dolore per tutta la loro vita; gli amici, che si chiedono il perché di tale destino, spesso affermano nei manifesti “vivrai per sempre nei nostri cuore”, e la ragazza, che aveva riposto in lui l’amore, vede venir meno tutte le speranze del felice futuro che andava con lui progettando.
Questi gravi e tristi casi manifestano con chiarezza che se è certamente responsabile della propria esistenza il singolo, è pur vero che un individuo non si fa da sé, è un progetto che s’interseca con tanti altri progetti.

martedì 15 maggio 2007

Essenza ed Esistenza

L’uomo, sin dall’antichità ha voluto conoscere la verità, tuttavia attribuendo a questa parola il significato di una conoscenza che vale per sempre e per tutti, si è imbattuto in una grave difficoltà, già individuata da Eraclito, ovvero non è possibile descrivere un volta per sempre un essere vivo, attivo.
Parmenide a sua volta affermava che solo l’Essere si può pensare e dire ed attribuiva a tale essere gli attributi di unicità e staticità. Da Platone tanti filosofi hanno ritenuto di cogliere la verità nel mondo delle idee, delle sostanze, delle essenze ritenendo di poter andare oltre i dati soggettivi dell’esperienza e rifugiarsi nel mondo impervio di una conoscenza puramente intellettuale.
Quando i filosofi si sono resi conto dei limiti della conoscenza umana e dell’impossibilità di poter dominare tutto il reale hanno rivolto l’attenzione all’esistente e questo è apparso in tutta la sua complessità e indefinibilità.
È stato detto che l’esistenza ha come categorie fondamentali la possibilità e la scelta, quindi il rischio e la responsabilità individuale.
Le problematiche a riguardo sono tante, mi riservo di ritornarvi, ma le categorie esistenziali sono ormai radicate nella società, tanto da diventare oggetto di riflessioni comuni.

sabato 28 aprile 2007

La dieta

Non sono un dietologo, ma voglio esprimere una mia semplice opinione frutto di proprie esperienze, di letture e di vita. I dietologi, come i medici e tanti studiosi, dopo varie ricerche definiscono i principi della nostra alimentazione, quindi in relazione a tali principi stabiliscono le varie diete. (Certamente sto affermando delle ovvietà di cui tutti sono convinti soprattutto chi con professionalità esercita tale attività).
Gli studi scientifici si basano su tante osservazioni, su dati statistici, sull’analisi dei dati raccolti. Le conclusioni a cui pervengono sono la sintesi di tali esperienze, che offrono delle indicazioni generali valide, ed è opportuno tenerle presenti quando si stabilisce una dieta. Ma quando si definisce la dieta per un individuo, bisogna operare con la massima cautela, perché bisogna seguire un processo inverso a quello seguito negli studi, ovvero nell’applicazione dei principi generali bisogna considerare le condizioni particolari dell’individuo: il suo metabolismo, il suo comportamento e direi anche le condizioni climatiche dell’ambiente in cui lo stesso vive.
Ecco perché nell’adottare una dieta bisogna prestare la massima attenzione e come gli specialisti raccomandano, quando si fa una dieta impegnativa, è opportuno consultare il medico o il dietologo, i quali dopo una seria conoscenza dell’individuo definiranno la dieta opportuna e seguiranno le sue varie fasi.

venerdì 6 aprile 2007

La dignità dell’uomo

L’uomo si è sempre considerato un essere privilegiato nei confronti degli altri esseri, anche se le sue peculiarità sono state interpretate in vario modo nel corso della storia.

Nell’antichità l’uomo era un essere animato tra tanti esseri animati, e la sua anima poteva incarnarsi anche in altri esseri viventi (nella trasmigrazione delle anime), tuttavia nell’uomo l’anima appariva con la sua intelligenza.

Aristotele distingue gli esseri viventi in esseri vegetali, sensitivi, razionali attribuendo a ciascuno un’anima che governa il proprio stato; all’uomo attribuisce la capacità intellettiva, ovvero la capacità di cogliere le idee.
Anche gli altri filosofi greci, pur se con differenti accezione, considerano l’uomo capace di conoscenza, di libertà e di felicità.

Nelle religioni monoteistiche l’uomo ha una particolarità, che lo distingue dagli altri esseri, è simile a Dio, è l’essere prediletto di Dio, perchè Dio gli ha comunicato direttamente la vita dandogli l’anima, il soffio divino. Tuttavia le religioni, pur riconoscendo all’uomo la libertà, ritengono che Dio si preoccupi di lui e lo guidi alla salvezza.

Durante l’Umanesimo, all’uomo, pur sempre creatura di Dio, viene riconosciuta la libertà di prendere autonomamente decisioni per la sua vita, e di essere attore nella storia. L’uomo è al centro nella scala degli esseri.

Nel ‘600 e ‘700 l’uomo è soprattutto ragione che illumina e domina ogni cosa, ma intanto il suo corpo è diventato un oggetto di scienza così come tutti gli altri esseri viventi. Vivo è in questo periodo il dibattito tra i razionalisti empiristi e i razionalisti innatisti, cioè tra coloro che sottolineano la superiorità dell’uomo in quanto essere spirituale e libero e coloro che riducono l’uomo ad una meravigliosa macchina, regolata da leggi fisiche; questione ancora aperta.

Da sempre si è posto con forza il problema della difesa dell’individualità o dell’appartenenza ad un’entità superiore: l’uomo ha valore in sé in quanto individuo o acquista un senso in quanto partecipe della vita di Dio o dell’umanità o di una società?

Le risposte differiscono secondo la sensibilità insita in ciascuno. Ma da ottimista, che sono, ritengo che l’uomo abbia una propria dignità, che va rispettata e difesa.

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mercoledì 14 marzo 2007

La rondine

Rondinella dove vai?
Oltre i monti, oltre il mare!
Rondinella tornerai?
Chi si parte vuol tornare!
Tornerò in primavera…

Sono alcuni versi di una poesia imparata nei primi anni della scuola elementare, di cui non ricordo né il titolo né l’autore.
Un mio amichetto in quei giorni andò via dal paese. Lo vidi con suo padre mentre partiva su uno dei camion che, carichi dei pochi mobili e delle varie masserizie, attendevano vicino al municipio per il saluto del sindaco, e andare poi nel nord Italia.

Milano, Milano che bella città!
Si mangia, si beve, l'amore si fa!

Era una piccola canzoncina che la mamma, faceva cantare al bambino, che aveva seduto sulle sue ginocchia e che spesso i ragazzini canticchiavano in cortile o nelle strade.
Emigrare era la soluzione più frequente alla disoccupazione e alla povertà, che imperversavano nell’Italia meridionale negli anni seguenti la Seconda Guerra Mondiale. Molti andavano lontano, nelle Americhe, altri nei paesi europei, tanti nel nord Italia, soprattutto a Milano e a Torino.
Prima, di solito, andava un figlio maggiorenne o il padre, appena questi trovava il lavoro e una precaria sistemazione, ritornava a prendere il resto della famiglia. Avevano intravisto una speranza di vita, e molti con sacrifici riuscirono a conseguire una dignitosa vita economica e sociale; ma con quanto dolore e pianto hanno interrotto i loro affetti e le loro radici dal loro paese.
Alcuni non ce l’hanno fatto e sono rientrati dopo alcuni anni. Molti hanno mantenuto i legami ritornando ai loro cari almeno durante le ferie estive, raccontando del benessere del paese dove erano immigrati, molto spesso non erano creduti o erano presi in giro per le inflessioni linguistiche che avevano assunto [Vengo da Milano sin chi (cadenza milanese) per mettere il piede nella quinquana (neologismo, traduzione italiana del termine dialettale ruvese per dire pozzanghera)] o per il nuovo atteggiamento acquisito. Altre volte riuscivano a convincere a partire altri operai ancora indecisi.

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giovedì 1 marzo 2007

Un Coktail Meraviglioso


Due piccolissime particelle gelatinose si uniscono e hanno in sé un programma di vita. Si tengono strette tra di loro nel grembo materno e così vivono e si sviluppano. Al momento opportuno, avendo acquisito una forma di bambino, questo viene, in forma quasi traumatica, messo al mondo. Ancora abbracciato e protetto dai propri genitori continua a crescere. Lo sviluppo avverrà fino alla maturità, quando sarà in grado di generare, poi inizierà il declino fino alla morte.

Questo essere così piccolo, se confrontato con l’universo, ha in sé delle forze straordinarie che gli consentono di vivere e di trasformare il mondo circostante, ha passioni e sentimenti: ha voglia di affermazione e di dominio, sopporta sacrifici e sofferenze per aiutare gli altri. Ama e odia, offre solidarietà e speranze, ma è altrettanto terribile da seminare guerre e morte.

La mente umana controlla a fatica tutte queste
pulsioni, passioni e sentimenti, e spesso pervasa da potenti turbe emotive perde ogni lucidità, sfociando in comportamenti incomprensibili e spesso terribilmente pericolosi.

Da sempre l’uomo ha cercato di comprendere se stesso, per tanti secoli con riflessioni introspettive, poi con le scienze “positive”. Molti lo hanno sezionato nello spirito e nel corpo: sono entrati a carpire alcuni segreti dell’animo umano, riescono a curare la maggior parte dei suoi organi, riescono a ricostruire tessuti e a creare le condizioni opportune perché possa essere generato.

L’uomo rimane un mistero meraviglioso, non descrivibile nella sua pienezza né dalle scienze teoretiche, né dalle scienze positive.


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lunedì 5 febbraio 2007

Il muro caduto

Due grandi utopie, direi di tutti i tempi, ma affermatesi prepotentemente nel XVIII e XIX secolo, hanno condizionato e condizionano ancora la società, la politica e la storia: il Mito della Libertà e il Mito dell’Uguaglianza.
Tra la prima e la seconda guerra mondiale questi due miti si sono manifestati in due strutture politico-economiche differenti e contrapposte: il mondo capitalistico, liberale-democratico, e il mondo socialista, democratico-popolare.
Durante la seconda guerra mondiale, per contrastare i nazismi e i fascismi, i democratici e i socialisti hanno combattuto come alleati, ma finita la guerra sono entrati in conflitto tanto da tenere il mondo col fiato sospeso per decenni con la cosiddetta Guerra Fredda, con la corsa agli armamenti e, ancora più terribile, con la diffusione della Bomba Atomica e delle armi nucleari.
In alcuni momenti di tensione si riteneva che da un momento all’altro potesse accadere la fine del mondo. (Oggi si parla poco di questo potenziale bellico, in seguito alla moratoria della produzione delle armi di distruzione di massa e alla distensione, ma gran parte di questo potenziale bellico è ancora attivo…)
Non entro nell’analisi storica di questo conflitto, ma vorrei richiamare l’attenzione su questa mia riflessione: gli uomini, che pur hanno individuato questi due grandissimi miti che si ispirano alla libertà e all’uguaglianza, per interressi, intrighi, voglia di potere, nella loro attuazione pratica li hanno interpretati in un modo talmente contorto da metterli l'uno contro l’altro.
Quanti son morti, quante sofferenze sono state diffuse in questi ultimi secoli per l’affermazione di due miti, che si propongono di difendere due fondamentali aspetti della dignità umana.
Finalmente il 1989 il muro è caduto, ma tra gli uomini i due miti rimangono tali, e il dibattito nella società rimane rovente, e rimarrà finché non si riuscirà a coniugare nei migliori dei modi la libertà con la solidarietà.

L’utopia

L’utopia, il non luogo, l’isola che non c’è, è il cantuccio della nostra anima dove sono depositati i nostri sogni.
Molti filosofi e letterati hanno scritto utopie, soprattutto nei momenti delle grandi crisi della storia, e queste sono per noi ottimi documenti delle aspirazioni dell’umanità nelle varie epoche. Il senso di disagio dell’uomo spesso viene risolto in un mondo di sogni e di speranze.
L’utopia ordina e realizza in un mondo fantastico queste aspirazioni, che spesso creano aspettative e suscitano impegno tanto da modificare nel tempo profondamente il mondo in cui si vive, un mondo di bene, di giustizia, di pace, di felicità, oppure un mondo in cui vengono soddisfatti i bisogni di tutti.
Altre volte si costruiscono mondi orrendi in cui si scaricano paure e passioni.
L’utopia è una favola, ma una favola che scaturisce dal profondo del cuore porta con sé il travaglio dell’umanità, che, spinta dalla tensione a migliorare sé stessa rifiuta il presente e con l’immaginazione progetta il futuro. Giustamente il noto cantautore Edoardo Bennato nella canzone “L’isola che non c’è” afferma che questo mondo è un nulla, ma senza questo sogno è veramente difficile vivere.

martedì 23 gennaio 2007

Il difficile equilibrio

Spesso si suole dire “è una persona equilibrata” per indicare una persona giusta, moderata, razionale una persona di cui ci si può fidare.
E subito corre il pensiero a uno dei primi razionalisti della storia della filosofia, Platone che riportò un mito, quello della biga alata, per indicare il retto comportamento morale dell’uomo, oltre che il modello di un ordine sociale giusto.
Immagina un cocchio trainato da due cavalli, uno bianco e uno nero, guidati da un auriga.
Platone vede in questa metafora la natura dell’uomo, questi infatti se da una parte tende al piacere, dall’altra è volto al raggiungimento di grandi ideali. Se non guidate queste due preziose qualità dell’uomo porterebbero ad continuo conflitto o al blocco della vita, per cui è necessaria una guida che è insita nell’uomo, la ragione.
Quando l’uomo riesce ad armonizzare con la regione sia la tendenza al piacere che la foga di raggiungere gli ideali, solo allora l’uomo può proseguire serenamente il suo cammino.

Quanto detto sopra, che è del tutto condivisibile, se confrontato con la realtà appare come un quadretto idilliaco in una grande scena tempestosa.
Tanta brava gente si dedica quotidianamente al lavoro per sopravvivere. Spesso durante il lavoro vede delle ingiustizie e sogna un mondo ideale che vorrebbe realizzare, ma si scontra con interessi opposti o con poteri molto superiori ai suoi e i sogni cadono vanificati da estenuanti frustrazioni.
Tanti volendo realizzare i propri ideali compiono delle azioni ritenute da altri irresponsabili, e spesso di fatto sembrano esagerate o dirompente il contesto in cui vive.
Tanti ritengono di dover vivere cogliendo ogni momento per soddisfare i propri desideri senza considerare le opportunità.
Molti si allontanano dal proprio ambiente, la propria famiglia per affrontare avventure in altri luoghi.
Tanti insoddisfatti dalla banalità quotidiana dedicano la loro vita ad ideali religiosi, umanitari, politici.
Tanti sono i comportamenti degli uomini, alcuni ritenuti affascinanti, altri meschini.

Un grande filosofo dell’Umanesimo Erasmo da Rotterdam, notava come nella vita domina la follia, non per denunciare in senso negativo i comportamenti degli uomini, ma per esprimere il dominio dell’irrazionale sul comportamento umano che spesso pur muovendo da buoni propositi sconvolge il presente, e crea disordini e conflitti.
Ogni uomo, quando opera dovrebbe, come afferma Kant, operare con libertà e ragionevolezza, ma chi giudicherà il ragionevole comportamento? Kant afferma che la risposta è in ciascuno di noi e viene dalla ragione. Se ognuno quando opera, pensasse che anche gli altri hanno gli stessi diritti, opererebbe in conformità di una legge insita in noi, ovvero il rispetto della propria e altrui libertà. Una norma questa che viene anche dall’insegnamento di Cristo: ama e non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te.

Ma nel vortice della vita quotidiana non tutti operano con ragionevolezza, tanti operano istintivamente, tanti spinti dall’emozione del momento, tanti dall’entusiasmo suscitato da simpatia o da passioni, ecc.
Ogni uomo dovrebbe ogni tanto uscire dal tram tram della vita frenetica, distaccarsi dal proprio ambiente, trovare un piccolo spazio per disporsi ad una distanza sufficiente per riflettere liberamente e affrontare con un po’ di serenità la propria vita e trovare quel possibile equilibrio tra passioni, sentimenti, desideri, sogni, condizionamenti e aspirazioni alla libertà.

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domenica 7 gennaio 2007

Elogio della Banalità

Personalizzare, essere originale sembra essere l’impegno quotidiano dell’uomo d’oggi. In ogni comportamento e in ogni attività si vuole dare l’impronta di sé e ciò che appare condiviso e comune viene tacciato di banalità.
L’attenzione a conseguire la massima personalizzazione crea preoccupazione, ansietà e alcune volte non accettazione di se stessi.
Ciò avviene nella vita quotidiana; se ci affacciamo nel mondo dello spettacolo questa tensione viene esaltata e pubblicizzata.
Tramite i mass media, ormai di uso diffuso e quotidiano, si è stabilita un’interrelazione tra mondo dello spettacolo, che spesso, soprattutto dai giovani è considerato come modello, e vita quotidiana, per cui l’enfasi della novità porta ad esagerare le personalizzazioni, fino a costringere alle stravaganze.
Il comportamento esteriore spesso è indice di principi morali ed etici.
L’individualismo, l’anticonformismo esprimono la volontà di indipendenza e di libertà, che ritengo sia connaturale all’uomo, anzi alcuni pensatori la ritengono la radice stessa della natura umana.
Ma è anche vero che l’uomo vive in comunità e difficilmente riuscirebbe a vivere fuori da essa, non solo per soddisfare i propri bisogni fisici, ma soprattutto per condividere i propri sentimenti.
È forte nell’uomo anche la tendenza all’emulazione, all’aggregazione e all’identificazione. Inoltre l’uomo vive in società, pertanto ha nel tempo cercato di individuare norme di convivenza, perfezionando modi di vita e principi etici condivisi. La tradizione, il senso comune, oltre che i costumi, la lingua, sono la sedimentazione dell’esperienza di generazioni pregresse.
La vita di ciascun individuo è radicata in tutto questo.
L’esasperata individualizzazione spinge verso comportamenti eterogenei, e nella vita sociale non si riesce più ad individuare la norma, e spesso quelle forme di comportamento che una volta si tolleravano, oggi diventano forme modello, mentre il vivere secondo le consolidate forme di buon gusto e di decenza, appunto perché ispirate al buon senso comune, sono ritenute banali.
E mentre vengono apprezzati quelli che per distinguersi esagerano nell’originalità, scadendo spesso nella volgarità, i molti del buon senso comune vengono emarginati come dei “semplici”, dei banali.
Il progresso dell’umanità è dato dalla curiosità e dalla ricerca, le nuove esperienze accentuano la critica del proprio ambiente, e contribuiscono ad elevare il proprio livello di vita sia materiale che culturale.
Anche il senso comune, sebbene più lentamente, si evolve tramite il severo vaglio e la condivisione delle esperienze maturate e delle sensibilità condivise. Pertanto il senso comune, “la banalità”, essendo un comportamento che accomuna, penso sia da elogiare e non da schermire come spesso avviene.

foto1 Particolare Tony Bennett. Fhotographed by Annie Leibovitz
foto2 Particolare Katie Holmes, Tom Cruise, and Suri Cruise. Photographed by Annie Leibovitz.