domenica 29 aprile 2012

Due vite s’intrecciano



Dopo il matrimonio i due giovani sposi, Marco e Anna, presero dimora in un piccolo appartamento non molto lontano dai loro genitori.
Marco continuava a lavorare nell’azienda del padre con gli altri due fratelli, di cui uno ancora scapolo, con i quali condivideva il ricavo del raccolto. Anna dopo aver rassettato la casa si recava dalla mamma, che già anziana aveva bisogno di aiuto e quindi dai suoceri dove collaborava a sbrigare le faccende di casa finché gli uomini tornavano dal lavoro dei campi.  Rientrati, pranzavano tutti insieme, quindi i fratelli sposati e le rispettive famiglie rientravano ciascuno alla propria casa.

 All'epoca era ancora stretto il legame patriarcale, soprattutto nel settore agricolo perché i genitori dividevano l’azienda tra i figli solo quando tutti avevano formato una propria famiglia; inoltre un giovane prima di rendersi autonomo doveva procurarsi i mezzi di lavoro che non erano solo gli arnesi, ma anche una piccola stalla, il carro e il mulo, che serviva per trainare il carro e per  tirare l’aratro nella coltivazione dei campi.

Il novello sposo progetta con la mogliettina un futuro migliore e oltre al lavoro nell’azienda paterna quando può offre il proprio lavoro ad altri cercando di accumulare un piccolo risparmio.
 
Anna, fino ad allora figlia coccolata dalla mamma e dal fratello maggiore, che le permettevano di lavorare come sarta da donna e di dedicarsi a qualche lettura, ora deve affrontare da sola i lavori domestici e collaborare con la propria anziana mamma e con i suoceri e tutta la loro famiglia.

I lavori domestici erano molto pesanti soprattutto in una casa di agricoltori: si doveva rassettare la casa, fare il pane, alimento all’epoca fondamentale, lavare i panni sfregandoli su una apposita tavola e all’occorrenza doveva cucire i sacchi dove si rimettevano il grano, le mandorle, le olive e altro, lavare i teli dopo il raccolto e tante altre attività di supporto ai lavori dei campi.
E quando nascevano i bambini la loro cura era affidata soprattutto alla mamma.

sabato 7 aprile 2012

La casa della Madonna

È una calda sera di luglio, Marco e Nannina rincasano, le finestre delle case sono aperte per accogliere il venticello che dopo una giornata afosa arriva provvidenziale a rinfrescare gli ambienti. Sugli usci delle abitazioni a piano terra sostano ancora sedute delle persone a cogliere quel lieve sollievo prima di andare a riposo.
I tre figlioli scorrazzano per la strada. Non c’è traffico, i cavalli sono nelle stalle e i traini stazionano ai margini della strada. Marco ogni tanto richiama i figli per non farli allontanare. Spesso durante il percorso salutano i conoscenti che incontrano, e alcune volte si fermano qualche istante per comunicare con loro.
Intanto programmano cosa fare l’indomani. Nannina deve alzarsi presto per fare il pane poi deve andare in banca per prelevare il denaro per le necessità familiari ordinarie. I bambini non vanno a scuola e ha difficoltà a portali con sé, e rivolta a Marco gli chiede: “Come fare?”. Marco non ha un momento di esitazione, sa cosa fare, gli è capitato altre volte: “Non preoccuparti possono venire con me. Domani ti aiuto a fare il pane, poi vado a Belmonte, un podere non molto lontano e quindi posso avviarmi più tardi, quando i bambini possono svegliarsi.”
Entrati in casa, ordina ai bambini di andare subito a letto, perché domani devono levarsi presto e andare insieme a lui in campagna. Il figlio più grandicello accoglie serenamente l’invito, per lui è un fatto ordinario andare con il papà nei campi, anzi spesso lo aiuta anche a eseguire dei lavori, i due più piccoli si eccitano a questa notizia, e vanno sì a letto, ma fanno fatica a prendere sonno immaginando l’avventura che gli toccherà l’indomani.




È ancora buio quando Marco e Nannina si levano da letto. Nannina versa la farina sul “tavoliere” aggiunge man mano dell’acqua calda con sale quanto basta per amalgamare la farina, aggiunge il lievito che ha conservato dall’ultima volta che ha fatto il pane e incomincia a impastare. Interviene Marco che aiuta la moglie a rivoltare e a schiacciare più volte l’impasto fin quando non presenta più grumi e si presenta uniforme. Dividono l’impasto in pezzi, li avvolgono tra bianche bende e li poggiano su un angolo del letto, dove, ben coperti raggiungeranno la debita lievitazione.
La collaborazione di Marco è terminata, ora si affretta a raggiungere la stalla per prendere gli attrezzi da lavoro, legare la mula al carro e avviarsi al campo come prestabilito. Deve far presto, deve incominciare i lavori già all’alba, più tardi farà caldo e sarà molto pesante lavorare sotto il solleone di luglio, e poi oggi ha con sé anche i piccoli. Marco esce di casa, intanto Nannina sveglia i piccoli e lava il loro visino, li veste in modo che siano pronti al passaggio del papà.
I bambini, anche se un po’ assonnati fremono nell’attesa. Ecco è arrivato papà. “Attenzione! Fate i bravi” dice la mamma mentre li accompagna vicino le scale. Marco, che ha lasciato vicino il portone il carro, prende in braccio il più piccolo, per mano il secondo, il più grande precede tutti scendendo velocemente gli scalini. Accomodati i piccoli sul piano del carro, si avvia verso la campagna.
Alla periferia della città c’è la fontana con il pilone dove si fermano i carri per abbeverare i cavalli, Marco si avvicina e, mentre la mula beve, riempie il secchio di acqua, che servirà per bere e per rinfrescarsi durante la giornata, e lo attacca sotto il traino. “Possiamo andare”, tira le briglie, fa retrocedere la mula e a passo riprende la via.




Lungo la strada c’è una lunga fila di carri, sono gli ultimi della mattinata, quelli che vanno ai campi vicini al paese, altri si sono avviati molto tempo prima. All’orizzonte incomincia ad apparire il primo chiarore dell’alba. I bimbi un po’ assonnati, sbirciano qua e là. La mula segue il tragitto in modo ordinato e Marco lega le briglie al traino, pronto a riprenderle al momento opportuno. “Salve”, “Deo ‘raz” (Deo gratias) erano i saluti che si scambiavano i contadini quando si incontravano, a cui si rispondeva “Salve” e “Sempr” (sempre), e lungo il tragitto Marco, che conosceva tanti compaesani, spesso salutava o rispondeva ai saluti degli altri.
Raggiunto il campo, Marco aiuta a scendere dal traino i figlioli. Prende dei rami, accende il fuoco e fa accomodare a debita distanza i piccoli, intanto scioglie dai finimenti da traino la mula e la riveste con quelli per l’aratura. Oggi deve arare il campo, non è un’aratura profonda, ma una superficiale, ha portato un aratro senza vomero, ma con una barra che passando in superficie sul terreno lo rende più friabile in modo tale da renderlo meno penetrabile dai raggi del sole e capace di contenere l’umidità sottostante, e nel contempo elimina l’erbetta che soprattutto dopo la pioggia anche in estate riprende a svilupparsi.
Sistemato tutti gli arnesi incomincia a percorrere il campo in tutta la suo lunghezza. Il figliolo più grande prende una zappetta e lo aiuta spostando sotto gli alberi la terra che l’aratro non raggiunge.
I fratellini più piccoli stanno per un po’ di tempo vicino al fuoco, poi incominciano a percorrere il campo, inseguendo lucertole, osservando e tentando di prendere le cicale. Marco per tenerli impegnati, in campagna c’è sempre da fare e per tutti, ordinò loro di raccogliere le pietre e ammucchiarle vicino al viottolo.
I bimbi fecero quel po’ che potettero, trascorsero il tempo tra il gioco e il lavoro.







Intanto nel cielo lentamente si addensavano le nuvole. Marco le osservava con preoccupazione, non promettevano niente di buono, forse si avvicinava un temporale.
La pioggia soprattutto nel mese di luglio è sempre ben accetta, ma spesso si accompagna con la grandine che può distruggere il raccolto. Oggi ci sono anche i bambini e bisogna proteggerli.
Marco si affretta a finire il lavoro, il temporale sembra ancora lontano.




Finito di arare, stacca la mula dall’aratro, le lega al collo la sacca con paglia e biada. Beve, si lava e guarda il cielo, non sembra tanto minaccioso, comunque bisogna far presto, sa bene che in luglio possono esplodere repentinamente i temporali. Potrebbe fermarsi nel campo dove c’è un trullo per ripararsi dalla pioggia, invece valuta che è opportuno rientrare a casa.
Lega la mula al carro e rivolto ai bambini, che si guardano anche loro incerti, “Su salite!” Il primo a salire e il più grandicello, poi afferra per mano i più piccoli e li aiuta a salire sul carro, “State giù e copritevi”e porge loro il suo pastrano.




Si ritorna a casa, ma percorso circa cinquecento metri si rende conto che il temporale viene proprio dal paese e fra poco sarà sul fronte del temporale e già cadono dei goccioloni. È inutile tornare indietro, a pochi passi c’è un piccola cappella votiva, che può contenere alcune persone. Questa è l’unica alternativa, bisogna raggiungere al più presto la cappella.
Ferma il traino, “Giù Rino!”, “Giù Mario!”, “Giù Nico!”. “Abbassate la testa, entrate”, prende dei sacchi che si trovavano sul carro e copre la mula, poveretta è sudata dopo una giornata di lavoro. Si abbassa, l’ingresso è piccolo, ed entra anche lui. L’ambiente è piccolo, ma sono ben coperti.
Appena entrati, scroscia la pioggia associata a chicchi di grandine. Si susseguono lampi e tuoni. I bimbi sono rannicchiati vicino l’altare, Marco vicino l’uscio rassicura i figli e controlla la mula.




Il temporale è stato violento, ma è durato poco. Cade ancora qualche residuo di pioggia, Marco ritiene opportuno riprendere il cammino. Fa salire il figlio più grande e gli offre il suo mantello, poi solleva e poggio sul piano del carro Nico e Mario, “Mettetevi sotto il mantello”. Toglie i sacchi bagnati dalla schiena della mula e sale sul carro, tira le briglie e fa avviare la mula.
Lungo la strada scorrono ruscelli di acqua melmosa, ma sembra che non ci sia più pericolo di pioggia, anzi il cielo incomincia a diventare luminoso e tra le nubi appare un raggio di sole. I bimbi mettono fuori la testolina e sgranano gli occhi quando vendono in cielo un grande arco con tanti colori, Rino esclama: “L’arcobaleno!” Gli altri guardano con meraviglia.




Da lontano scorgono la casa, è già illuminata dal sole.
Dentro c’è Nannina che aspetta i figli con trepidazione. Durante il temporale si era chiusa nella camera da letto perché ha terrore dei fulmini e dei tuoni, ogni tanto si era avvicinata alla finestra per seguire l’evolvere del temporale. Aveva attaccato ai vetri della finestra dei santini, quasi per invitare i santi protettori a osservare e a intervenire in soccorso. La luce, l’arcobaleno incominciavano a rasserenarla, ma i figli…




Marco, appena giunti al paese, porta i figli a casa, li fa scendere dal carro, li avvicina alla scala e li affida al maggiore di loro: “Su andate a casa, io porta la mula alla stalla, vengo presto”. Sale sul carro e riparte.
La mamma è dietro la vetrina dell’uscio, quando vede arrivare i tre figlioli va loro incontro, li abbraccia, sono asciutti, incredula continua a ritoccarli, non sono stati investiti dal temporale.
Mette la pentola sul fuoco, perché fra poco arriverà anche suo marito, intanto toglie ai figli gli abiti intrisi di polvere, li lava, dà loro abiti puliti. I bambini incominciano a raccontare la loro avventura.




Arriva Marco e abbraccia sua moglie, che ora va rasserenandosi.
“Su tutti a tavola, oggi siete stati in campagna e scommetto che avete fame”, tutti si mettono a tavola. Durante il pranzo continuano a raccontare degli alberi, delle cicale, delle lucertole, delle tante pietre raccolte, della grandezza del mucchio che avevano fatto, della pioggia, dei fulmini, dei tuoni.
La mamma desidera che le rimuovano quella che è stata la sua preoccupazione e chiede “Perché non vi siete bagnati?” e all’unisono i due piccini risposero: “Siamo entrati nella casa della Madonna”. Rino e il papà sorridono, la mamma li guarda con occhi lucidi di commozione e in seguito volle che ascoltassero la stessa risposta i nonni e gli zii.
Il solleone era tornato ruggente, tutti erano stanchi per la giornata trascorsa. Il papà si levò da tavola e ordinò a tutti di andare a riposare. Nico e Mario andarono a letto, ma continuarono per lungo tempo a raccontare, finché la stanchezza non li fece assopire.