sabato 10 aprile 2010

Il linguaggio

Mentre i bambini venivano esercitati ad usare la penna con aste, bastoncini, cerchietti, cornicette disegnate sul quaderno, il maestro raccontava degli aneddoti, delle favole, facendole ripetere dai bambini. Mostrava oggetti, definendoli in lingua italiana. Doveva creare una certa armonia all’interno della classe: c’erano bambini, che, pervenendo da famiglia di impiegati o di liberi professionisti, parlavano in italiano e a contatto con gli altri apprendevano delle parole in dialetto; c’erano molti ragazzi, che, figli di operai o contadini, parlavano solo in dialetto e facevano fatica ad esprimersi in italiano. Mario si districava fra i due linguaggi, perché il padre, piccolo coltivatore diretto e analfabeta, aveva difficoltà a parlare in italiano, che pure comprendeva, e quando era costretto ad esprimersi in italiano lo faceva con un linguaggio suo personale, mentre quando era in compagnia di altri contadini, dovendo esprimere una parola in italiano, modificava delle vocali in modo da renderle assonanti al linguaggio dialettale. La mamma, che aveva frequentato la scuola elementare, sapeva leggere e scrivere e spesso si dedicava alla lettura di alcuni libri che le capitavano, cercava di non far parlare i figlioli in dialetto, ma doveva arrendersi quando questi parlavano con il papà.
Il maestro ogni mattina, faceva esercitare i bambini a scrivere una pagina di a, una di b, ogni giorno una lettera da scrivere su una pagina in classe, su un’altra a casa. Quindi incominciava a far comporre le parole, da ripetere dieci-venti volte, chi incontrava delle difficoltà era obbligato a ripetere l’esercizio più volte.
I bambini apprendevano un linguaggio comune, chiamavano con lo stesso nome gli oggetti e le persone circostanti, comunicavano tra loro, e quel sentimento di simpatia che lega i bambini, diventava più chiaro, più comprensibile, più solido. Si formava una nuova piccola comunità.

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